Non so voi ma io quando ascolto un nuovo gruppo mi pongo un certo tipo di domande. Non quelle da webzinaro, sempre pronto con l’incasellatore e i tag entro cui circoscrivere qualsiasi cosa gli si pari davanti. Io me ne faccio altre. Per esempio, mi domando come fruire della musica che sto ascoltando. Io di solito non riesco a star fermo, quando sento la musica, qualsiasi musica. Ho bisogno di tenermi fisicamente occupato, solo così riesco ad ascoltarne per ore e con gran gusto. Se mi sdraio su un letto e chiudo gli occhi, non ce la faccio. Come posso ascoltare un disco dei Testament o dei Dokken così? Mica è Debussy, no? I Krallice…
Se l’azione che immagino come accompagnamento alla musica mi piace svolgerla, allora mi piace anche la musica che mi spinge a svolgerla. Per esempio ci sono album “da palestra”. Ce ne sono altri “da corsa” e altri ancora da “guida in stato di ebbrezza”. Guai a confondere queste categorie.
Poi ci sono quelli “da passeggiata” e sovente bisogna che mi domandi dove mi spingerebbero a passeggiare, certi dischi. In un cimitero? Allora è death metal. In un bosco d’inverno? Allora è black metal. In un supermercato? Allora è grindcore.
Mi piace stare con la musica in cuffia quasi tutto il giorno, ho bisogno di una colonna sonora nella mia vita e chiedo che sia sempre heavy, che mi ispiri, mi trasmetta energia e non me ne tolga mai. Ne ho già scarse per il vivere quotidiano, non posso concedermi emorragie energetiche da un disco che mi deprime o che mi tiene così impegnato con i suoi tempi dispari e non mi trasmette nulla. Sarebbe come un filosofo che usa paroloni e poi non ti dice niente di niente. Tempo sprecato, attenzione sprecata, energia sprecata che si porta via lui, la canzone, il gruppo, il filosofo chiacchierone e non io. Quindi la domanda più importante quando sento un disco è questa: mi carica o mi scarica?
Se mi scarica smetto di ascoltare e scrivo un post iracondo per vendicarmi di quell’album, gruppo, film eccetera. Specie con la musica, vi consiglierei sia di domandarvi la stessa cosa che di fare la stessa cosa che faccio io. Vi sentite stanchi dopo l’ascolto di quel disco o vi sembra di poter spaccare il mondo? Ecco.
Parlando dei Krallice le domande che mi sono posto sono queste, non se fanno avant-black metal o post-sympho-black. Quello mi è stato spiegato da chi se ne intende, prima ancora di ascoltarli. Non a quali gruppi si ispirino perché pure lì sono stato istruito per bene. Avrei riconosciuto i Tangerine Dream e i Darkthrone, gli Imperial Triumphant e le colonne sonore dei vecchi film anni 70/80, specie quelli distopici, ma non avrei saputo collegare i Krallice a una miriade ai Serpent Column o i Castevets.
Le risposte che posso e devo darmi io sono quelle che ho detto sopra: mi donano energia o me la levano? Cosa potrei fare mentre ascolto l’album, che mi permetta di concentrarmi su di esso e intanto sfogare l’imput che arriva al mio corpo? Correre? No. Allenarmi con i pesi? Neanche. Passeggiare? Naaa. Cucinare? Ancora meno.
I Krallice mi suscitano ammirazione, per cominciare. Inorganic Rites è una commistione di escursioni synth molto suggestive e cinematiche e un black evoluto a trasformare la crescita emotiva delle melodie elettroniche in deflagrazioni minerarie. Anzi, in alcuni momenti sembra che le sbidonate di doppia cassa del talentuoso Lev Weinstein, le chitarre bizzose della coppia Marston/Barr e i latrati di disperazione di quest’ultimo siano più il condimento che la portata principale dei loro piatti e che a farla da padrona incontrastata, come una regina dei ghiacci, crudele e tristissima sia il vasto campionario di tastiere e sintetizzatori di Nic McMaster.
C’è un’atmosfera inquietante, oscura, ostile e generalmente molto creativa. Il gruppo procede temerario, senza risparmiarsi nessuna deviazione, fregandosene delle etichette e dei confini in cui i puristi vorrebbero contenerli. La lunga Fatestorm Sanctuary è un divenire di pericoli, rivelazioni, scenari apocalittici e albe salvifiche, in oltre tredici minuti che non annoiano mai e che anzi, tengono col fiato sospeso perché sembra che stia accadendo qualcosa di imprevedibile, sfuggente, come in un sogno di cui non capiamo il senso ma che continuiamo a vivere, in attesa di qualche risposta che ci illumini o di una via d’uscita.
Però tornando al quesito fondamentale, Inorganic Rites non mi mette voglia di camminare, né di trascinarmi in un cimitero e tantomeno in un supermercato. Non potrei reggere un minuto di corsa con questa roba nelle orecchie e in macchina mi sembrerebbe di avere qualche problema alla cinghia di distribuzione o al motore e abbasserei di continuo il volume per capire se è solo la musica o se devo andare da un meccanico. L’unica cosa che immagino di fare, ascoltando brani come Parataxis o la sepolcrale Flatlines Encircled Residue è starmene seduto sul letto, guardando il vuoto oltre il vetro della finestra.
I Krallice sono alla quattordicesima uscita ufficiale o giù di lì. Girano dal 2007. E io non so nulla di loro. Non so neanche se tornerò mai ad ascoltarli perché sì, mi conquistano su un piano razionale ma poi il mio lato emotivo resta come spento. Vorrei che tutti i loro giri di tastiere e di frullate black metal confluissero in una bella apertura maestosa, da fischiettare mentre vado al cesso. E invece nulla, sembra musica dodecafonica. Ogni nota, ogni passaggio, ha la medesima importanza, enfasi, centralità.
Ho ascoltato solo questo ultimo loro album. Trovo che sia intrigante, originale, ben congeniato ma privo della sostanza che mi fa sentire vivo. Capisco chi gli darà voti alti e li metterà nella top ten di fine anno. Spesso mi domando però se quei recensori così entusiasti per roba come Ulcerate e Krallice, poi risentano davvero le cose che elogiano tanto nella vita di tutti i giorni. Penso a certi giornalisti culinari che scrivono cose magnifiche del risotto al panettone e poi a casa mangiano solo pasta al sugo e pane e prosciutto. Capite cosa intendo?