Parlare di John Mayall a una settimana dalla scomparsa potrebbe sembrare per qualcuno una sciacallata bella e buona, un accodarsi dell’ultim’ora al treno della celebrazione postuma. Farlo su un blog di metallo pesante suona poi quasi come una provocazione e forse proprio per questo ci sentiamo chiamati in causa. Nessuna retrospettiva particolare, con una discografia tanto vasta non ci si improvvisa cultori, non sarei credibile né stimolerei la curiosità di chicchessia. Anche se possiedo una manciata di dischi siglati John Mayall sappiate però che il legame con quest’uomo viene da lontano. Correva l’anno 2003 e il merito è tutto della defunta Rock FM; all’interno di un programma di settore, quel vecchio volpone di Fabio Treves passò dal nulla un estratto dall’album appena uscito, Stories. Non affannatevi a cercare improbabili recensioni, di questo disco su Google non v’è traccia, a eccezione di qualche recensione degli utenti Amazon e dei soliti link per l’acquisto. All’epoca scrivere una recensione era ancora un’operazione ammantata di nobiltà soprattutto se rivolta a un disco di nicchia. Il disco è una lunga raccolta di pezzi rock blues asciutti, trascinanti e soprattutto tutti diversi l’uno dall’altro.
Il pezzo in airplaying si intitolava The Kids Got The Blues e per le mie orecchie fu una autentica folgorazione. Riascoltato oggi, suona alla maniera di un onesto shuffle fatto con tutti i crismi del caso: riff portante, timbrica squillante, la solita ficcante interpretazione vocale (non sottovalutate il John Mayall cantante, è un bluesman viscerale anche dietro al microfono), le canoniche dodici battute riviste in modo non convenzionale e un ritmo pestone fatto apposta per stuzzicare gli appetiti dei rockettari.
Sono proprio queste ultimi aspetti a caratterizzare il disco e forse l’approccio alla carriera di questo immenso artista, ossia la capacità di far girare i soliti accordi in maniera sempre diversa sospinti da un piglio ritmico mai banale. Per uno che all’epoca sentiva il bisogno di spurgare metallo da tutti i pori senza rinunciare alle dosi minime di energie, tutto questo era semplicemente poesia.
Sin dai primi dischi, quelli più iconici come Hard Road, Crusade o Blues Breakers, Mayall non ha fatto altro che recuperare canzoni e stilemi del blues tradizionale centrifugandoli con pattern ritmici moderni. La retrospettiva potrebbe anche chiudersi qui, una volta delineato il perimetro della supposta coerenza stilistica in un genere come il blues, ma è qui che casca l’asino.
Da un certo momento in poi, forse per esuberanza stilistica, forse per effetto del trasferimento dalla brumosa Manchester alla West Coast, John Mayall decide di rompere gli schemi: scioglie i Blues Breakers e pubblica un disco in cui lui stesso canta, suona chitarra e armonica, supportato unicamente da un percussionista.
The Blues Alone è un’opera destrutturante ma non contento dopo la vacanza in California vede la luce Blues From Laurel Canyon, che subisce non poco l’influenza di quei tempi e quei luoghi, quelli appunto della Summer Of Love, per capirci. Il blues delle radici, quello di Robert Johnson e Howlin’Wolf è ormai un puntino lontano, l’astronave di Mayall agli inizi degli anni ’70 viaggia alla velocità della luce e non intravede ancora la fine: The Turning Point è a tutti gli effetti il suo climax creativo, oltre non è possibile andare.
Un disco live di inediti, stavolta del tutto privo di percussioni ma non della dimensione ritmica. Sette brani semiacustici in cui chitarre di ogni tipo, un sassofono e l’immancabile armonica si intrecciano, improvvisano e disegnano atmosfere sorprendenti, soprattutto nei nove minuti e mezzo di California e nella fulminea improvvisazione di Room To Move.
L’esperimento verrà ripetuto nel successivo Empty Rooms, con la stessa line up ma in studio; capite bene che qui ad ogni disco c’è un succoso elemento di novità a rendere il piatto decisamente ricco, alla faccia delle canoniche dodici battute. Da qui in poi ogni album è una miscela di musicisti all-star arruolate allo scopo di sperimentare suggestioni stilistiche di ogni tipo. Gli anni ’70 di John Mayall sono stati un enorme cantiere musicale concluso con l’iconico live The Last Of British Blues che sancì il ritorno a una dimensione più classica. I decenni successivi sono stati la consueta parata di dischi con vecchi e nuovi amici, fatta di duetti, rimpatriate e una lunga sequenza di dischi in studio con pochi passi falsi.
Che altro dire di lui se non che ha fatto da nave scuola al gotha del rock blues britannico, Eric Clapton, Mick Taylor, Peter Green, membri dei Fleetwood Mac, insomma è uno che ha avuto indirettamente un impatto sul m0eglio del rock mondiale.
Quel disco del 2002 di cui parlavamo all’inizio ci racconta una storia e forse il titolo non è casuale, ossia che il senso ai dischi viene da chi li concepisce.
Troppe volte per lui si è spesa la parola “coerenza” in modo del tutto gratuito e anche un po’retorico, quasi a volerlo ammantare senza troppi contraddittori di una sorta di intoccabilità. Fateci caso, è un mantra verso i mostri sacri ma a pensarci bene la coerenza, diceva la mia professoressa del liceo, è molto spesso la virtù degli imbecilli.
John Mayall è senz’altro intoccabile per il motivo esattamente contrario, è stato capace fin dai primi anni di rompere gli schemi, espandere i confini di un genere “obbligato” come il blues oltre i limiti consentiti e di riscriverne le regole. Un genere che non a caso riesce sempre ad essere attuale e uguale a sé stesso e oggigiorno a godere di ottima salute grazie anche alla sua lezione. Una lezione che dovrebbero tenere in mente tanti sedicenti artisti anche al giorno d’oggi.