Non sono un collezionista di vinili, né un imboscato delle collezioni private. Non sono un malato di edizioni originali e la mia vita scorre piacevolmente anche senza la visita a muffosi scaffali domenicali. Però come si suol dire: a volte l’occasione fa l’uomo ladro. E l’LP di The Final Countdown, reperito in perfetto stato a casa di conoscenti e generosamente donatomi da loro, rappresentava un boccone troppo ghiotto per non fargli spazio nella libreria di casa.Non sarà uno di quei dischi da far girare tutte le settimane sul piatto, come se fosse ancora il 1986, ma è un po’ come quando erediti un oggetto da un lontano parente venuto a mancare: è la fotografia di un momento nella vita che ricordi fin troppo bene, perché eri giovane, non eri solo e tutto aveva il sapore di una scoperta.
The Final Contdown per molti della mia generazione rappresentò in effetti l’ingresso in territori avveniristici e sconosciuti, fatti di capelli lunghi, abiti sgargianti, sfrontatezza e una tensione erotica sotterranea destinata a esplodere con l’adolescenza. Ho trovato interessante riascoltarlo oggi che ho orecchie e testa differenti e posso rapportarmo con un disco che ha segnato un’epoca e un momento della mia infanzia.
Non è quindi l’occasione per una boutade revisionistica degli Europe, un gruppo con cui sono sempre andato d’accordo e che negli anni ha finito persino per farmi simpatia; forse per quell’aura da nobili decaduti che si sono portati dietro praticamente da subito. Non dimentichiamo che fra il boom commerciale e lo scioglimento sono trascorsi circa sei anni: un niente oggi ma che all’epoca sembravano secoli.
Conservo ancora e ascolto regolarmente Wings Of Tomorrow e Out Of This World, i dischi che reputo meglio invecchiati del loro repertorio. Prisoners In Paradise invece fa tenerezza, sempre per i motivi di cui sopra, ma The Final Countdown resta un’altra storia che porta a fare un ragionamento diverso.
Particolare non secondario: la fanbase italiana degli Europe è a occhio una delle più fedeli; scremati negli anni tutti gli ascoltatori casuali, i parenti e compagni di scuola, i fan nostrani degli Europe, nel 2024 rappresentano una cerchia agguerrita di irriducibili che accetta e segue l’evoluzione stilistica della band ma che sotto sotto, a ogni concerto aspetta con trepidazione i bis per riascoltare Rock The Night o Cherokee.
Credo si possa dire fino agli anni più recenti, anche se con gli ascolti mi fermo a War Of Kings, che gli Europe non abbiano mai pubblicato un disco uguale al precedente e che la band sia, per parole del suo stesso leader “musicalmente sempre in viaggio”.
Riascoltare oggi The Final Contdown, a me fa un effetto strano; tolte le hits che non citerò in quanto scritte nel libretto di istruzioni di ogni essere umano nato dal dopoguerra in poi, io avevo la curiosità di riascoltare quei pezzi nascosti di cui ricordavo ancora ritornelli e testi (!!!), da cantare in coro con gli amici dopo essersi detti che, sì, anche io ce l’ho la cassetta degli Europe, mio cugino ha il vinile, eccetera eccetera.
Alludo a Danger On The Track, Ninja, Love Chaser, Heart Of Stone, Time Has Come e…basta, quelle sono. Ad avermi colpito è la semplicità delle canzoni, che non vuol dire però banalità. Chiunque abbia familiarità con gli strumenti musicali riconoscerà a orecchio certi patterns resi già celebri all’epoca da band come i Rainbow, per dirne una.
Mi incuriosisce sapere come la vecchia guardia accolse un disco con quelle sonorità, a parte tutto il tam tam mediatico che crebbe intorno a esso e lo impose in tutte le classifiche. Mi incuriosisce l’ascolto critico perché se come il business aveva agghindato gli Europe negli anni 80 poteva infastidire, la parte musicale non faceva certo strappare i capelli e non credo servisse un orecchio assoluto per accorgersene.
I Rainbow di Bent Out Of Shape e Straight Between The Eyes quella roba l’avevano già portata alla ribalta appena tre-quattro anni prima, non dieci. Altre band AOR prestigiose, in quel periodo, pubblicavano musica di ben altro livello, invecchiata benissimo, meno stereotipata e altrettanto di successo: per curiosità ho rimesso su Raised On Radio dei Journey, una delle cinque band per me più grandi di sempre e il disco forse meno celebrato della loro sacra triade di metà anni ’80. Beh fa letteralmente spavento per la ricchezza del linguaggio, lo stile e la genialità delle intuizioni. In un mare di note che a oggi suona quasi plastificato, c’è spazio per un sassofono, tante percussioni e una sezione ritmica nuova di pacca fra cui un mostro di bassista che di nome fa Randy Jackson (proprio quello di Zucchero…).
E allora? Cosa ha portato gli Europe a essere la controparte rock degli Abba nel mondo? I singoli li avevano anche gli altri. Certo, il faccione di Joey Tempest era tutt’altra cosa rispetto alla nasca di Steve Perry, ma non può bastare a spiegare un tale successo. The Final Countdown cade in mezzo a due dischi che gli sono nettamente superiori. Wings Of Tomorrow è estremamente vario e sanguigno, in certi passaggi persino Maiden oriented ma accattivante anche per chi ha orecchie delicate. Out Of This World è un hard più elegante e strutturato, impreziosito dagli assoli fluenti di Kee Marcello e da tonalità persino bluesy, tipo Let The Good Times Rock o la splendida ballad Coast To Coast.
Il popolo però vuole barabba libero e Gesù in croce e questo vale anche per i dischi. Quando uscì nel maggio 1986, The Final Countdown aveva l’obbiettivo di sbancare sul mercato US dove già guadagnava terreno un certo Jon Bon Jovi (Slippery When Wet sarebbe uscito tre mesi dopo).
Con Out Of This World gli svedesi lanciarono il carico ma, a distanza di un mese, fu chiaro che gli americani erano già da un’altra parte. New Jersey era la sintesi perfetta fra Springsteen, l’AOR e tutta quella “roba americana” che non si può descrivere a parole ma che risulta chiara ascoltando i dischi.
Il tentativo di di rincorrere i Bon Jovi sul loro terreno arrivò fuori tempo massimo nel 1991 con Prisoners In Paradise, un’epoca in cui gli Europe erano di fatto già dei dead men walking, musicalmente parlando .
A riascoltare The Final Countdown oggi l’impressione è che si tratti solo di un buon disco uscito al momento giusto perché come dice Ian Paice, non esistono in assoluto dischi belli o brutti, ma dischi usciti al momento giusto o al momento sbagliato.
Credo che nel 2004, quando hanno deciso di ritornare in pista, Joey Tempest e gli altri abbiano avuto più o meno le stesse sensazioni e per quanto li ritenga ancora una band genuina, ho il sospetto che nel riascoltare i loro dischi passati si siano detti qualcosa del tipo “no, questa roba non funzionerà mai più”. Meglio il contentino di “Rock The Night” nei bis e dirigere la band verso altri lidi.