My Sister’s Machine e la maledizione di Seattle

Nel 1993, quando ormai si era fatto il classico fascio raccogliendo sotto un solo genere (il grunge) un certo tipo di gruppi che avevano in comune una notevole personalità, ispirazione e che si conoscevano tra loro, provenendo tutti dalla stessa città (Seattle), la cosa si ingigantì al punto da diventare una moda. E così ecco che qualsiasi band imparentata con gente di quella città, veniva messa sotto contratto; c’erano gruppi appartenenti a ben altri corsi stilistici che improvvisamente cambiavano look, sound, stile, tecnica e scrittura per tentare di star dentro a quella cosa chiamata “la Moda Grunge”, di cui il pubblico sembrava non essere mai sazio e che era diventata più interessante del metal di Los Angeles. Sempre nel 1993, un giornalista di Rock Hard (il tedesco e originale) scrisse a proposito dei My Sister’s Machine

e del loro secondo album Wallflowers che “ormai il grunge, in quanto moda, è sprezzato dai fanatici di hard ‘n’ heavy duri e puri” e che, nonostante le apparenze, facendo così aggiungo io, stavano decretando la morte a una delle band hard rock più interessanti e meritevoli di Seattle, colpevole solo di essere di quel posto di merda e di avere un cantante e paroliere, Nick Pollock, colluso per i suoi trascorsi passati, con una delle band più rappresentative del grunge, gli Alice In Chains.

Poco importa che lui vi fosse nella sua prima e poco nota incarnazione hair metal e ancora meno importava agli snob del rock duro che si chiamassero Alice N’ Chains, senza la i, e che fossero anni luce lontani dall’evoluzione che li avrebbe portati fino a Facelift e Dirt. I My Sister’s Machine, nel 1993, erano per queste persone solo un altro deprecabile esemplare del fenomeno grunge e meritava di essere ignorato.

Peccato che musicalmente, sia con il primo, ottimo album, Diva uscito un anno prima, che con la seconda valida riconferma, Wallflowers, i My Sister’s Machine avessero distanziato nettamente certi tratti tipici delle band di quella città. Sì, alcune linee melodiche, una certa attitudine vocale di Pollock, potevano ricordare Chris Cornell e Layne Staley, ma la musica era molto più agitata e vicina al crossover che alle cosiddette “litanie grunge”.

C’erano per esempio diversi giri di basso sincopati e funky sul primo disco. Il fraseggio generale delle chitarre era sozzo, violento. pesante e pestante, come quello dei primi Guns. In certi momenti, Diva, (il brano I Hate You in particolare) alcune canzoni non avrebbero sfigurato su uno dei due Use Your Illusion. Inoltre, ci sonopezzi in cui il gruppo rimandava platealmente all’hard rock da stadio degli ultimi Cult (Wasting Time).

Certo, cose come l’intro di Walk All Over You fa ancora pensare un po’ ai Pearl Jam di Ten ma per dire, Sunday ha una botta e una vitalità che non troverete mai nei dischi dei grandi nomi di Seattle; più probabile negli Skid Row.

Evidentemente nel 1992, il fenomeno grunge aiutò i My Sister’s Machine a essere notati. Pur uscendo con un’etichetta molto piccola, la Carolone Records, il mondo si accorse di loro, ricevettero ottime recensioni e c’era chi scommise su di loro a occhi chiusi per gli anni successivi. Purtroppo, sempre a causa del fenomeno grunge, il pubblico ideale non gli si avvicinò praticamente mai e quello interessato “per moda” non li reputò “abbastanza grunge”.

Alla fine del 1994, in un articolo che voleva riassumere il senso di un anno intero, il Fuzz portò lo scioglimento dei My Sister’s Machine come una prova della fine del grunge. Non era stata tanto la morte di Kurt Cobain per lui: dopo vari tentati suicidi sembrava una cosa abbastanza telefonata in quei mesi, terribile ma prevedibile. Però se una delle più brillanti e promettenti realtà di Seattle dopo i vari Chains e Garden, Jam e Nirvana, si era già dovuta arrendere per mancanza di interesse da parte del pubblico, era chiaro che il mercato aveva voltato le spalle al grunge e che per Seattle era già finita.

Anni dopo, nell’agosto 2011, la Layne Staley Fund organizzò una serie di concerti. Il 21 ricomparvero proprio i My Sister’s Machine riuniti per l’omaggio occasionale di un vecchio amico. Fu l’unica volta in cui li si è visti di nuovo in giro e pare che il pubblico presente abbia capito in una sola, dolorosissima botta, quanto fossero stati ingiustamente sottovalutati e poi dimenticati. Come dice sempre mia madre: “mo’ so bbone le fave”, che potrei tradurre con “il rimpianto è ciò che ci resta, a questo punto”

Qualche tempo fa, leggendo il libro Grunge Is Dead di Greg Prato, pubblicato da Tsunami, mi aspettavo di trovare citata, anche solo di passaggio, la band di Nick Pollock. Ebbene, non lo è mai, nemmeno una volta. Finalmente qualcuno l’ha messo in chiaro una volta per tutte che col grunge i My Sister’s Machine non c’entravano un beato cazzo.

I loro due album restano a testimoniare quanto la fama della città di Seattle abbia non solo valorizzato, ma anche penalizzato enormemente, tanta buona musica. Riscopriteli e non ve ne pentirete. Erano una potente e ispirata band hard rock degli anni 90, nel bene e anche nel male, se proprio volete aggiungerlo.

Prima di chiudere desidero ringraziare un lettore di Sdangher che mi ha suggerito di trattare i My Sister’s Machine. Ha un nome un po’ particolare su facebook: Mondadori Point Piedimonte Matese. Con un nome così lungo deve essere senz’altro un nobile.