LAETITIA IN HOLOCAUST – QUANDO GIA’ DAL NOME SI BAGNANO I DURI E ZAGAGLIANO I MEDIOCRI

G/Ab Volgar dei Deviate Damaen se la chiacchiera con i Laetitia In Holocaust

Parliamoci chiaro: viviamo un momento storico in cui stuprare il totalitarismo woke, oltre che godimento eversivo, è mera sopravvivenza creativa. Eppure, malgrado le inequivocabili evidenze che da anni attanagliano la libertà d’espressione, molti artisti faticano ancora a capire, figurarsi a reagire. L’unico istinto veloce, ahinoi, rimane quello a favore dell’oppressore, ovvero la paura: paura che ti fa mollare una band scomoda appena qualche sorcio scrive il suo nome alla lavagna; paura che ti fa vaccinare senza riflettere sul valore dell’integrità del tuo corpo, pena l’esclusione sociale; paura che ti fa rinunciare a esprimerti liberamente, rendendo troppo frustrante la dissociazione fra ciò che vorresti dire e ciò che ti lascerebbero pubblicare.

Ebbene, è giunto il momento che gli artisti liberi si organizzino da soli, se vogliono continuare a distinguersi fuori per ciò che realmente sentono di essere dentro, sin dal nome. Grazie all’ormai consolidata ospitalità di Sdangher, ne parliamo da Artista ad Artisti con i Laetitia In Holocaust, appena usciti per la Dusktone con l’album Fanciulli d’Occidente, invitandoli a trattare proprio quegli argomenti che gli stampaioli blasonati, aka quelli col culo spanato, si cagano in mano a trattare, finendo così per “trascurare” una band storica e valevole come i Nostri.

Quindi, forza, ragazzi, parliamo fuori dai denti di tutto ciò che può far incazzare wokkoni, pettinati e algoritmo censorio, iniziando dal vostro nomen che non è certo un toccasana per nessuna di quelle tre categorie di stronzi…

LIH: …un non semplice incipit! Allora, da una parte siamo sempre stati pessimi marketer di noi stessi, dall’altra abbiamo sempre ostentato un certo menefreghismo verso l’opinione comune riguardo determinate tematiche, tra cui quella politica. Non abbiamo infatti riferimenti politici, bensì mitici e archetipici. Non so quindi distinguere quanto LIH, o meglio l’interpretazione superficiale di essa, abbia ostacolato la diffusione della nostra musica. A ogni modo non ci siamo salvati dall’essere stati vittime di sedicenti paladini dell’underground che prima millantano garanzia di totale libertà di espressione per poi cercare di edulcorarti tentando di modificare immagine e parole, arrivando anche a cambiare senza preavviso frammenti di interviste, per renderti meno sgradevole a chi ha un palato talmente volgare da non saper non dico apprezzare, ma proprio interpretare con cognizione e chiarezza i nostri contenuti. Pazienza, intendiamo continuare a essere pessimi venditori di noi stessi, se questo è il mercato…

VOLGAR: il nome di una band è l’unica vera costante della sua storia. Ci sono stati momenti differenti nel declinarne il senso lungo la vostra discografia precedente, per intenderci quella pre-Fauci tra fauci? A distanza di anni, quanto di quella produzione vi rispecchia ancora e quanto invece è superata e non più in linea col vostro sentire?

LIH: a mio parere ciò che abbiamo prodotto da Fauci tra fauci in poi si distanzia in modo netto rispetto a quanto fatto prima. Non solo siamo passati da essere un duo con drum machine a una band di cinque elementi, ma sono cambiate proprio le tematiche nonché il significato di LIH. Con buona pace di chi vuole forzatamente interpretare tutto con categorie politiche, ambito che mai ci è interessato, se prima il nostro nome si riferiva a un sentimento di repulsione verso l’esistente e l’anelito verso la sua fine, con gli ultimi dischi ciò di cui parliamo è soprattutto felicità nel sacrificio – il nostro sacrificio nello specifico, per qualcosa di eterno, superiore, ancestrale e archetipico. Sacrificio che si contrappone sia allo zeitgeist in cui viviamo sia, almeno a mio personalissimo parere, a quanto celebravamo nei primi album, che assolutamente non rinnego, ma non ascolto neanche con molta voglia. Sono in un periodo lontano e va bene così: il moloch contro cui ci contrapponiamo ha per noi assunto una forma diversa, diverso è di conseguenza quindi LIH.

VOLGAR: voi siete emiliani, terra di mortadella, culatello e lambrusco: come vi spiegate l’arrendevolezza della vostra gente al wokeismo vegan che, oltre a cancellare tradizioni enogastronomiche millenarie, sta distruggendo il tessuto produttivo della vostra regione? Voglio dire, come si coniuga un qualsiasi menù da Festa dell’Unità di un qualsiasi sperduto borgo romagnolo, con le esigenze inclusive e globaliste dei tanti “nuovi companeros d’importazione” che né mangiano maiale né bevono vino o per menate animaliste o per questioni religiose? Già, perché persino nell’impasto delle piade c’è lo strutto. Per non parlare delle mazurche romagnole così leggiadre e distanti da quelle scimmionate trap che paiono progettate ad hoc per ridisegnare il portamento antropologico dei giovani europei…

LIH: sento, per una volta, di dover spezzare una lancia nei confronti dei miei corregionali riguardo il tema enogastronomico in quanto, pur essendo una regione pregna di contraddizioni, incoerenze, opportunismi e corto-circuiti di ogni tipo, vedo un fronte abbastanza saldo nell’essere tutti radicati alla nostra tradizione culinaria. Parliamoci chiaro, non è una questione unicamente di principio o anche solo emotiva, cioè di attaccamento alle radici, ma anche in quanto il benessere che ha sempre caratterizzato l’area è nato anche grazie a un tessuto produttivo molto fecondo per quanto riguarda quegli alimenti che in tanti vorrebbero cancellare e che quindi non solo non vogliamo, ma non possiamo perdere. Vedo insomma, almeno in questa zona, improbabile una oppressiva presa di potere di chi vorrebbe nutrirci di insetti, carne prodotta in laboratorio e seitan anziché di vino e insaccati anche se – e nell’ultimo periodo gli esempi si sprecano – a volte basta un colpo di spugna per tranciare o quanto meno indebolire ogni allacciamento con qualsiasi elemento che fino a poco prima era concepito come spina dorsale di ciò che siamo. A tal proposito vedi appunto i mutamenti in termini di ascolto che hai citato riguardo la diffusione della trap anche se, sempre parlando della nostra zona, temo stiamo passando dalla padella (e non parlo di liscio o mazurka, ma di qualcosa di ben più commerciale ma pur sempre autoctono) alla brace.

VOLGAR: e sempre a proposito di Emilia Romagna, datemi un parere su Lindo Ferretti, un artista che sembra intoccabile più per stanca retorica ribellista che non per sue reali gesta ribelli. Suvvia, dov’è stata la dissidenza del buon Giovanni nell’invitare sul palco, in occasione della reunion dei CCCP, un servo del regime che voleva veder morire i no-vax come mosche? E dov’era “il dissidente” mentre noi ci beccavamo fior di randellate dalla polizia alle manifestazioni (non autorizzate) contro il green pass? Dissidenti bisogna esserlo quando c’è da rischiare serio, non bastano le creste colorate e i balletti con Amanda Lear sulla Rai.

LIH: parlando a titolo strettamente personale posso dire che non sono mai riuscito ad apprezzare Ferretti e i CCCP né da un punto di vista estetico, nel senso prettamente musicale – la loro musica semplicemente non mi piace, questione di gusti – né, soprattutto, della sostanza e dei contenuti. A mio parere, e mi riferisco principalmente alla loro discografia tradizionale, fare riferimento a determinate ideologie cercando di passare per ribelli o anticonformisti in un contesto in cui in queste hanno avuto modo di dominare e propagarsi in ogni anfratto della società dal primo dopo guerra significa non opporsi ma, al contrario, essere al soldo di un sistema che si vorrebbe contrastare. Sintetizzando: ove altri vedono ribellismo io vedo conformismo, cosa che, a prescindere dall’ideologia, lascia il sottoscritto molto dubbioso, o meglio scettico, sulla proposta artistica. Figuriamoci quando, cambiato il paradigma, cambia il fronte… lascio l’ascolto ad altri, non riesco proprio ad apprezzare.

VOLGAR: tornando al Black metal, il nostro chitarrista Noktvrnal mi ha insegnato molto su come ascoltarlo, dato che non è mai stato fra i miei generi di riferimento. Sono arrivato a concepirlo come musica da degustazione, esattamente come accade con certa Classica e certa Sperimentale; o con la Dodecafonica, la Rumoristica e anche certo Prog.
E, come la Classica, il Black metal rappresenta un baluardo della cultura occidentale contro il lebbrosario della cancel culture. Credo non sia un caso di come la Grecia, civiltà affossata in ogni modo dalle plutocrazie davosiane, continui a sfornare proprio in quell’ambito creativo delle vere eccellenze di resistenza lirica e musicale. Io nel vostro stile di BM percepisco notevoli influenze “colte”, dalla Classica alla Prog, ma non sono un ascoltatore attendibile. Ditemi voi…

LIH: ho dei dubbi se sia possibile definire “colte” le nostre influenze, d’altronde il progressive rock stesso, uno dei nostri generi di riferimento, era ai suoi albori chiamato “pop” godendo, tra l’altro, di ampia diffusione (per inciso, mi sbalordisce sempre come qualsiasi cosa promossa dall’industria culturale nel corso degli anni sia degenerato a tal punto da passare a essere da “popolare” a “volgare”, ma non voglio divagare, a prescindere dal prog in questione). Hai a ogni modo percepito il fatto che, per quanto cresciuti a base di metal estremo, quindi prevalentemente death e black metal, siamo influenzati anche da altri generi, spesso distanti da quelli menzionati, tra cui: musica classica, folk in diverse sue varianti (dal prog/psychedelic folk dei Comus alla scena apocalyptic e neo folk di Current 93, Death in June ecc), darkwave alla Joy Division, Sisters of Mercy e The Cure (ascoltati allo sfinimento soprattutto in occasione di nostri primi demo), molto progressive rock e musica elettronica di vario tipo (dai Tangerine Dream agli MZ412). Tutti generi che cerchiamo di approfondire da sempre ma che non ci precludono altri ascolti estemporanei, ma sempre mirati, ricercati e voluti. Ascoltiamo tanto, cercando di recepire continuità anziché frattura nell’eterogeneità, e non abbiamo problemi a passare dai Satyricon ai Goblin ai Misfits, ma di certo non ascoltiamo di tutto.

VOLGAR: tempo fa mi sparai un segone sull’intervista di uno di questi gruppuscoli black metal col cazzo focomelico (se non direttamente con la figa), che piagnucolavano di sacrifici animali ancora in voga presso i live di band rimaste (davvero, loro sì) fedeli alla linea. Con le mie Dame Deviate ho dedicato il brano “Soya Blackster” proprio a questa specifica voce del puccioso wokeismo animalista che, oltre a tradire l’ancestralità delle origini, offende la cultualità di quanti credono profondamente in quei nobili rituali sanguinolenti.
Insomma, ma che cazzo di mammolette asteriscate sono diventati ‘sti benedetti blackster?

LIH: senza troppi giri di parole, a me sembra che si stia cercando in ogni modo e su più fronti di riscrivere i crismi del genere, soprattutto andando per assurdo a imporre dei moralismi in un tipo di musica nato per essere, fondamentalmente, anti-umano. Con questo non voglio dire sia imperativo apprezzare o supportare qualsiasi fenomeno il black metal abbia manifestato dalle sue origini a oggi – io stesso detesto e non supporto alcune sue derive – ma allo stesso tempo addolcire, se non castrare, qualcosa che ha nel proprio sangue una rivolta contro l’esistente significa averne frainteso lo spirito o, ancora peggio, voler  farne ciò che si vuole in barba a qualsiasi “invasione di campo”… o appropriazione indebita, tanto per usare un termine diventato ormai tristemente di uso comune.

VOLGAR: Intelligenza artificiale (demmerda), mezzi tecnologici sempre più alla portata di tutti, estrema facilità nel produrre e autoprodursi: come vi relazionate con le attuali modalità di incisione, produzione e promozione? Come viene prodotto un album di LIH e quanto vi aggradano gli standard modernisti?

LIH: abbiamo vissuto sulla pelle lo sviluppo tecnologico che ha coinvolto anche il settore musicale negli ultimi due decenni e l’impatto che questo ha avuto sul modo di produrre la nostra musica. Quando abbiamo inciso il primo demo abbiamo dovuto chiedere in prestito una chitarra elettrica a un nostro amico in quanto possedevamo solo una chitarra acustica, registravamo le demo in uno stanzino microscopico con l’ampli al massimo e grande piacere dei nostri timpani, non avevamo autonomia alcuna, da quei tempi siamo arrivati a una situazione in cui parte delle tracce vengono registrate in un contesto di home recording mentre per altre riteniamo sia fondamentale lo studio di registrazione. Cerchiamo di prendere il meglio dei due mondi evitando sia le prese di posizioni tali per cui “il black metal deve essere grezzo” sia il livello di digitalizzazione estrema a cui molti gruppi sono arrivati, senza prendere neanche in considerazione AI e “poveracciate” varie. Anzi, in particolar modo in Fanciulli d’Occidente, abbiamo cercato di mantenere un feeling acustico soprattutto sulle percussioni e non escludiamo di registrare il prossimo full direttamente in presa diretta.

VOLGAR: gli ultimi 3 album che avete pubblicato – Fauci tra fauci, Heritage e infine Fanciulli d’Occidente – per quanto stilisticamente diversi fra loro, sembrano riproporre tematiche simili e mantenere determinate costanti nel dipanarsi dei singoli brani: esiste effettivamente un Filo d’Arianna che lega l’intero percorso? E quanto sentite tutto ciò ameno rispetto alle tematiche affrontate generalmente all’interno della scena Black metal?

LIH: ce ne siamo accorti solo una volta completato l’ultimo album e non è stata assolutamente una cosa voluta, ma effettivamente gli ultimi tre dischi rappresentano una sorta di trilogia che si differenzia sia da quanto composto in precedenza che da quanto produrremo in futuro. Fauci tra fauci celebra la lotta ancestrale e primigenia dell’essere vivente gettato nell’arena, che riconosce se stesso in ogni avversario coinvolto nell’incessante lotta per la sopravvivenza o la supremazia; è forse il nostro album più sanguigno e ferino e sostanzialmente fa da tesi a Heritage in cui lo spirito, ora ispirato da un misticismo guerriero, parla con la voce, distante ma familiare, di ciò che abbiamo appunto ereditato del nostro passato. Non è quindi protagonista la battaglia di ogni essere, come nel disco precedente, ma è la battaglia di chi ci ha preceduto e non è più distante né nel tempo né nello spazio né tantomeno nella memoria bensì è, ora, anche nostra. Fanciulli d’Occidente è quindi sintesi e superamento: abbiamo voluto rappresentare in copertina una mano insanguinata che, mentre stringe una corona d’alloro, effige della gloria passata, impugna un coltello simboleggiante morte e transizione, la morte del Cesare precedente che lascia spazio a quello che verrà. Distante da ogni passatismo fine a se stesso cerca di proiettare nel futuro ciò che è stato, ispirandosi a figure e modelli mitici e archetipici.

VOLGAR: “Fanciulli d’Occidente” è un titolo che non poteva non ricordarmi la nostra “Fratelli d’Occidente, Salviamo Noi Stessi dall’Estinzione!”: secondo voi ci sono attinenze, perlomeno di valenza epica, fra i due brani?
Eh lo so, Nicola preferiva “Fratelli Tutti ..’Sto Cazzo!”, ma quella è tutt’un’altra storia…

LIH: cerco di prendere questa risposta un po’ alla larga per poi andare al punto. Partiamo dal presupposto che, almeno a mio parere, LIH è un gruppo estremamente atipico sotto diversi punti di vista. In primis per quanto riguarda la forma: il nostro è un black metal spesso definito “avantgarde” anche se preferisco definirlo “eterodosso”, in quanto non rappresentiamo una rottura netta coi canoni passati né possiamo fregiarci di una propulsione estrema verso terreni del tutto vergini pur adottando soluzioni non tradizionali, ad esempio tramite strutture spesso non ripetitive, l’utilizzo di strumenti non appartenenti al genere o una certa ricchezza negli arrangiamenti. In secondo luogo, e qui inizio a contestualizzare la risposta, non trattiamo alcuni dei topoi tipici del genere, come per esempio il satanismo, e non prendiamo neanche posizioni smaccatamente anticristiane (anzi, personalmente mi sento più coinvolto dai turbamenti religiosi di un Antonius Block in “Il settimo sigillo” e mi affascina di più il rigore esistenziale di un cavaliere crociato piuttosto che il satanismo in una qualsiasi delle sue forme). Parliamo di misticismo guerriero, di sangue ancestrale, di tenebre variopinte e di luce che rende più ciechi dell’oscurità stessa, di archetipi primigeni, quindi anche di Occidente e della sua eredità tanto mitica quanto storica e della sua proiezione verso il futuro: di qui penso sia innegabile un qualche tipo di comunione se non di stili quantomeno di temi tra i pezzi citati. Infine in terza istanza, e qui concludo collegandomi al brano che hai nominato: siamo quanto più distante da quello che l’opinione comune pensa che lo stereotipo di un blackster qualsiasi, cupo e depresso, possa essere, anzi, siamo persone a cui piace molto ridere e, soprattutto se i bersagli sono quelli giusti, anche deridere.

Suaviter, G/AB VOLGAR
LAETITIA IN HOLOCAUST