Ricordo che un certo periodo, tra il 1991 e il 1994, sul mercato c’erano gli Electric Boys, gli Atomic Playboys e i Galactic Playboys, a cui associavo non so bene per quale ragione profonda anche i Dangerous Toys. A parte questi ultimi, che conosco molto bene, degli altri tre “Boys” potrei dire più sugli Atomic, la band di Steve Stevens e sugli Electric Boys, di cui amo molto Groovus Maximus e Freewheelin’, ma ammetto di non sapere nulla dei ragazzi galattici.
Sì, conosco il nome da molti anni, da quando lo leggevo nella lista nice price da acquistare per corrispondenza a cifre stracciate, ma nonostante il prezzo invitante di 3900 lire per una loro cassetta, che mi pare fosse l’omonimo, non riuscivo a decidermi se ordinarla o meno perché dai pochi riferimenti sulle riviste che leggevo al tempo, di loro si parlava poco e non si capiva nulla su cosa proponessero. Ammetto che non era facile descriverli a un pubblico di ascoltatori per procura.
Dentro quella ricetta c’erano i Beatles, i Metallica, i Black Sabbath, i Crosby, Stills, Nash & Young, il glam rock anni 70, il progressive e non basterebbero nemmeno questi ingredienti a farvi capire di cosa stiamo parlando. Erano anni in cui alcuni gruppi fecero di tutto per sfuggire alle etichettature e proposero dei minestroni impossibili, da mandare ai pazzi i recensori. Ricordi tanti nomi e devo ammettere che pur avendoli scoperti, riscoperti e apprezzati nel corso degli ultimi vent’anni, specie grazie a internet, al tempo non li acquistavo.
I miei investimenti andavano ai nomi sicuri (Pantera, Metallica, Megadeth, Iron Maiden, Dokken, Queensryche, Paradise Lost) che poi tra il 1992 e il 1999 non lo erano per niente, sia in termini d’ispirazione che di coordinate stilistiche; oppure mi facevo abbindolare da qualche singolo carino su MTV e mi ritrovavo CD in casa che oggi fatico anche solo a confessare di aver acquistato (e rivenduto). Certo, c’era la ricerca costante nel passato, quindi mi tuffavo nel vecchio thrash, nel death, nel power… ma quanto al nuovo, col cavolo che nel 1994 avrei speso dei soldi per i Galactic Cowboys. Ed è un peccato perché tra il 1991 e il 1994, appunto, vale a dire al tempo in cui uscirono i primi due album, questi ragazzi erano incredibili e superiori alla media delle band heavy di quel periodo. Ditemi se non è così! Userei l’aggettivo “strepitosi”, per una volta, pur detestandolo e trovandolo abusato. Ma qui vale la pena, per loro, abusare.
Erano davvero strepitosi per la capacità di superare qualsiasi aspettativa dell’ascoltatore mediamente smaliziato. Una melodia qualsiasi, non finiva mai dove ti illudevi di sentirla andare e un loro brano, strutturalmente, poteva passare da un riff doom a un assalto thrash attraverso un siparietto melodico alla Love. come fosse uno zapping radiofonico. Conoscete i Love, vero? Solo con City Of Evil e l’omonimo degli Avenged Sevenfold ho provato un’ebbrezza così travolgente per via delle attese disattese.
La commistione tra Black Sabbath e Beatles è la medesima dichiarata allo sfinimento da Peter Steele per i suoi TON, ma mentre il pubblico capiva dove stavano i primi e fingeva di capire dove potessero rivelarsi i secondi, nel caso dei Galactic Cowboys è tutto chiaro. Però attenti, rispetto a tante band rapsodiche e che frullano numerosi generi insieme, a rendere questi quattro tipi davvero straordinari è l’abilità nel non perdere mai di vista la canzone, la direzione complessiva, il disegno finale.
Forse sul primo ci sono momenti un po’ disorientanti. Faccio un esempio per tutti: quando I’m Not Amused passa dal flamenco al thrash ai Dokken e i Beatles nel giro di due minuti, chiudendo su un riffone alla Hands Of Doom dei Black Sabbath con sopra un’armonica blues, si resta lì a domandarsi se si stia in un altra dimensione o se non si sia ancora partiti per nessun posto, ma tenetevi forti sul culo del toro e abbiate fede, c’è così tanta bellezza melodica, c’è così abbondanza di sorprese, che potrei parlare di questi primi due album come di avventure nello spazio. Appunto.
Non voglio dire che oggi avremmo bisogno di un gruppo così. Magari loro sono ancora in giro, non ho voglia di approfondire per ora cosa gli è successo dopo l’insuccesso di due grandi album iniziali e la momentanea pausa di tre anni prima di un ritorno, a quanto pare, più semplificato di se stessi, nel 1996. So che i Galactic Cowboys, in qualsiasi periodo possano nascere e prosperare, faranno fatica a imporsi sul mercato, saranno vittime dell’incapacità generale, sia del pubblico che della critica, di capirli e affidarsi a loro. Ma non lo fanno apposta. Hanno bisogno di essere imprendibili. Dipende da noi stargli dietro, anche solo sulla scia del polverone che lasciano.
Mi ci metto anche io, che quando uscì mi lasciai sfuggire forse quello che è considerato il loro capolavoro assoluto, Space In Your Face, e puntai la mia paghetta su un disco spompo e deludente come Youthanasia dei Megadeth. Riesco ad ammetterlo solo dopo tanti anni che Youthanasia era una merda e mi ci è voluto ancora più tempo per accorgermi di quanto fossero ganzi i Galactic Cowboys. Qualcosa in questa cosa dipendeva anche dalle riviste che ci consigliavano, informavano, persuadevano sugli acquisti, però è stato proprio Stefano Pera, ex Metal Hammer, a consigliarmi oggi di riscoprire questo gruppo meraviglioso. Lo ringrazio e perdono la categoria.