Avatarium – La dottoressa se la fa coi metallari!

O madre, ci sono cavalli sulla luna?
Li ho visti ieri sera
Attraverso lo specchio
Un cavallo era rosso, l’altro era blu
Correvano e rotolavano
Dove sbocciano i fiori di luna
Oh madre, ci sono tigri in fondo mare?
Cadono e nuotano
Respirano come delfini
Felici e aggraziate in fondo al mare
Giocano come bambini
Proprio come me

Se non fossimo su un blog che scrive di metal, nel leggere queste parole penseremmo a un cantautore tipo Leonard Cohen, o Paul Simon (non cito Bob Dylan che il nostro Padre Cavallo poi ha gli scompensi). Volendo si potrebbe trovare anche una certa assonanza a certe cose di Ronnie James Dio.
Sono versi che arrivano invece da Moonhorse, pezzo che apre l’omonimo debut degli Avatarium.

Non è facile definire la proposta musicale degli Avatarium. I più attenti assoceranno la band al nome di Leif Edling, e quindi al doom, tutt’al più a una voce di donna e siccome noi siamo convinti che il metal regali ancora qualche soddisfazione alla faccia del nostro Capo Redattore a tuttoggi impegnato negli scavi di reperti archeologici di inizio anni ’90, vi racconteremo chi erano mai ‘sti Avatarium e perché sono quanto di meglio c’è in giro.

Stoccolma si sa, è fatta di tante isole ma è un posto piccolo, soprattutto se suoni metal: l’ennesimo side project partorito dall’universo Candlemass vedeva inizialmente coinvolto nientemeno che Mike Akerfeldt degli Opeth ma che causa assenza di tempo ha dovuto declinare, lasciando spazio ai più volenterosi Markus Gidell e la cantante Jennie-Ann Smith. Che peraltro ne è la moglie.

Fleetwood Mac in salsa scandinava, corsi e ricorsi della storia.

Vale la pena spendere due parole su questa giunonica frontwoman dai lineamenti marcatamente vichinghi che di mestiere in verità fa la psicoterapista.

Un aspetto questo che è molto svedese. Anche se siamo portati a pensare il contrario, la musica da quelle parti non è granché remunerativa e solo una minoranza riesce a farne un mestiere, nonostante i sussidi e l’incidenza sul PIL del mercato discografico.

Questo non preclude la nascita di grandi band e di grandi artisti come appunto la suddetta Dottoressa Jennie-Ann, che ha una voce e un carisma a dir poco ammalianti, sublimi.

Non è tanto l’attitudine metal a emergere dalla sua voce quanto quella blues, o soul, insomma, è una che a background viene proprio da un altro mondo. La storia però insegna (Quorthon in primis) che a fare innovazione nel metal quasi sempre è stata gente che si ispirava ad altro.

C’è comunque il doom nella proposta degli Avatarium, innegabile, ma c’è anche una forte componente cantautorale nei testi e non solo; dopotutto con una voce come quella della bella e bionda cantante, perché limitarsi ai sermoni di Messiah Marcolin? Con queste premesse alla band si aprono un ventaglio di possibilità.

La trasformazione della band nell’arco di cinque dischi secondo qualcuno è dipesa dal ruolo che hanno avuto man mano Leif e dall’altra Jenni e Marcus.
Il debut omonimo nasce per lo più dalla penna dell’ex Candlemass, mentre gli altri membri si limitano più che altro a rimodellarlo in qua e là. The Girl With Raven Mask è un opera gradualmente più corale, nulla di strano se The January Sea potrebbe sembrare scippata ai Candlemass, ma già Pearls And Coffins sprigiona Uriah Heep da tutti i pori; tutta l’opera è comunque basata su idee di Edling che modella le composizioni sulla voce della Smith, al punto che quasi tutti i pezzi presentano la stessa struttura (incipit, strofa solo voce, riff con cantato, chorus).

Nel terzo e controverso Hurricanes And Halos ecco che la coppia porta due brani tutti loro, ma l’evoluzione è sin qui ancora abbastanza graduale e coerente con il concept di partenza. Sono proprio quei due brani a stuzzicare l’orecchio dell’ascoltatore: Road To Jerusalem è uno strano epic-country che sa di polvere e mistero come tutto ciò che porta Jerusalem nel titolo; When Breath Turns To Air è un commiato funebre dalle tonalità blues e non è tanto per dire, è quanto di più vicino alle dodici battute in minore, una roba che sarebbe piaciuta a Gary Moore, per capirsi.

Con il successivo The Fire I long For Leif fa un deciso passo indietro dettato sicuramente dalle sue vicissitudini personali, limitandosi a un ruolo da mentore: lui mette la firma su tre pezzi mentre il resto del disco è a firma Marcus e Jenni che con le loro influenze Seventies traghettano il gruppo su altri lidi.

The Fire I Long For è un disco vario e imprevedibile pur collocandosi in ambito del doom che però a questo punto diventa una collocazione puramente indicativa. In verità il disco non nasconde l’intenzione di agganciare un pubblico più ampio, ma questo non rende il disco meno riuscito.

Prendete il singolo apripista, Rubicon, composizione da manuale che in un mondo in cui la giustizia trionfa sarebbe tutte le mattine nella playlist di DJ Ringo. Gli Avatarium sono quella cosa che potrebbe presentarsi al Roadburn come all’Eurovision senza per questo sfigurare o perdere di credibilità. Il mood apocalittico di Great Beyond con Kashmir che fa da guida spirituale, la ballata cimiteriale Lay Me Down e lo stesso singolo trasmettono quel senso di incertezza che nasce dal profondo dei nostri cugini scandinavi e dal connubio con paesaggi mozzafiato.

E’ interessante il ruolo di Leif Edling, questo scivolare indietro quasi rispettoso, aggiungerei da vero leader, che non ha forse un paragone analogo almeno nell’ecosistema metallico. Nell’ultimo Death, Where is Your Sting del 2022 Il bassista dei Candlemass contribuisce con un solo, unico brano, e che brano. Stockholm non è la “Roma Capoccia” dei metallari bensì una struggente poesia dedicata a una città che per chi ama questa musica e chi l’ha visitata non può non rimanerne soggiogato.

Il sound della band si fa ancora più asciutto ed essenziale, come sobrietà scandinava vuole, ma soprattutto i testi diventano ancora più personali. Uno dei grandi limiti del metal è l’incapacità di parlare in prima persona, di condividere una prospettiva individuale rispetto al qui e ora.

Si parla insomma di miti e leggende, vichinghi, paradiso e inferno con poche varianti; non ci sono solo mari bui e profondi o grandi mietitrici, temi che peraltro sono stati sviscerati dalla band in maniera tutt’altro che banale e sempre con l’utilizzo di figure retoriche, ma anche storie di amore malsano o interrotto, come quello della struggente Mother Can You Hear Me Now?, confezionato con un solo chitarra più Gilmouriano del Gilmour recente.

Non so perché ma quest’ultimo disco, che pure è quello forse passato più in sordina, a parer mio è anche quello più equilibrato, i pezzi doom tipo la opener, la title track e “God is Silent” sono quadrati e massicci come una stele di marmo, i due singoli Stockholm e Mother… i veri gioielli, poi c’è la strumentale Trascendent molto sabbathiana nelle intenzioni come lo erano Fluff e Supertzar a quei tempi, insomma ci siamo capiti.

A voler trovare il pelo nell’uovo, qualche difetto imperdonabile in qua e là emerge. Uno è che ogni tanto si prendono delle libertà che non gli competono, del tipo “proviamo a fare qualcosa di più leccato che magari facciamo il botto”; ne escono ciofeche tipo Nocturne, ma alla fine non ci credono più di tanto neanche loro e i passi falsi non si contano neppure sulle dita di una mano.

L’altro è che Marcus Jidell ha ammesso di vedere più Leif Edling di sua moglie. No dico, ma stai bene?