Non avendo abbonamenti a cose tipo Netflix, Disney+ o similari, se mi voglio guardare un film alla sera, mi affido al palinsesto della tv in chiaro. Limitante forse, ma spulciando per bene nel vasto panorama di canali, qualcosa di interessante si trova sempre. Ergo, mi è capitato per caso di vedere il film Midsommar – Il villaggio dei dannati, pellicola del 2019 diretto da Ari Aster, a me noto per il suo approccio innovativo all’horror e per aver esplorato i confini emozionali e psicologici del genere, che però non avevo mai sperimentato sullo schermo.
Il film è un viaggio inquietante e visivamente straordinario che combina elementi di horror folk e dramma psicologico, offrendo un’esperienza cinematografica unica. Mi ha molto colpito, in positivo, per la sua struttura simbolica, la sua bucolica narrazione incessante, per una dimensione che sembra sfuggire al mondo, pur essendone parte , solo fisicamente.
Al centro di Midsommar vi è l’esperienza del lutto e del trauma di Dani Ardor, interpretata da Florence Pugh. Il film esplora come il dolore e il trauma possano isolare una persona e condurla a cercare connessioni in luoghi inaspettati e, talvolta, distruttivi.
La progressiva alienazione di Dani dai suoi amici e il suo coinvolgimento nella comunità singolare del villaggio svedese sono metafore potenti delle dinamiche del dolore. L’incontro con la comunità pagana svedese di Hårga rappresenta lo scontro tra modernità e tradizione, razionalità e misticismo.
La comunità segue rituali antichi e inquietanti che si scontrano con le norme dei protagonisti, generando tensioni e contribuendo al senso di isolamento e vulnerabilità. Al centro della trama c’è la relazione disfunzionale tra Dani e Christian (Jack Reynor), che mette in luce dinamiche di potere e mancanza di empatia.
La crescente rottura del loro legame è parallela al viaggio di Dani verso la liberazione personale; sebbene questa avvenga in un contesto disturbante. Personalmente ammiro come Ari Aster utilizzi una cinematografia luminosa e colorata, in netto contrasto con i toni tipicamente oscuri associati all’horror.
Questo uso della luce del giorno, insieme a una composizione visiva intricata e all’ambientazione apparentemente idilliaca, intensifica il senso di inquietudine e dissonanza, suggerendo che l’orrore può celarsi anche nei luoghi più belli e sereni. Midsommar può essere visto anche come una critica alle connessioni superficiali tipiche della modernità.
La fragile rete sociale intorno a Dani è composta da amicizie vacue e relazioni disfunzionali, che Aster suggerisce siano comuni nella società moderna. In contrasto, la comunità di Hårga offre un’apparente solidarietà e senso di appartenenza, sebbene con modalità aberranti.
Ho notato come il film esplori la pressione della conformità e l’abbandono dell’individualità a favore di un’identità collettiva, tematiche che riflettono le tensioni tra individualismo e comunitarismo. Gli outsider vengono gradualmente assorbiti e, infine, sacrificati dal villaggio, simboleggiando come le persone possano essere consumate da aspettative sociali totalizzanti.
Ho provato a ricollegare anche l’impianto simbolico e simbolistico: l’uso di rituali che derivano da credenze pagane autentiche e immaginarie. Questi sono rappresentazioni esoteriche del ciclo della vita, della morte e della rinascita, incarnando una visione del mondo ciclica che contrasta la visione lineare occidentale.
La natura è venerata non solo come scenario, ma come entità sacra. I riti associati al solstizio e alla fertilità parlano di un misticismo che celebra e teme simultaneamente le forze naturali. Questo misticismo evidenzia un legame profondo e spirituale tra l’umano e il naturale, suggerendo una simbiosi esoterica con il mondo circostante.
Colpisce come Midsommar utilizzi il ciclo stagionale del solstizio d’estate per rappresentare temi di rinascita e sacrificio. La celebrazione del solstizio diventa una farsa rituale di trasformazione e distruzione, simboleggiando la necessità di distruggere il vecchio per fare spazio al nuovo.
I fiori, ampiamente utilizzati nel film, simboleggiano bellezza e decadenza. La ghirlanda di fiori indossata da Dani alla fine è simbolo di trasformazione e accettazione, rappresentando la sua metamorfosi da oppressa a parte integrante, sebbene destabilizzante, della comunità.
La predominanza del bianco, delle vesti degli abitanti, apparentemente esprime la purezza, rivelandosi poi più affine alla valenza che culture come quella giapponese assegnano al colore della morte, rivelando che l’ambivalenza tra ciò che si vede e ciò che accade realmente è molto divergente.
Il film culmina con un rituale di fuoco che serve come purificazione e rinascita, dove il vecchio mondo è consumato per dar vita a un nuovo ordine. Questo simbolismo del fuoco rappresenta anche la distruzione catartica di vecchi legami e traumi, sottolineando il tema della trasformazione personale.
Midsommar è un’opera complessa che fonde horror, dramma e critica sociale con elementi esoterici e simbolici. Ari Aster costruisce un mondo dove ogni dettaglio visivo e sonoro arricchisce la narrazione, non solo inquietando, ma anche stimolando riflessioni profonde sulla natura umana e sociale.
Il film ci invita a confrontarci con i nostri demoni interiori e culturali, usando l’orrore come mezzo per esplorare il nostro bisogno di appartenenza, significato e liberazione dai vincoli imposti, sia dalla società che dai traumi personali. Mi ha deliziato anche il comparto sonoro, composto da Bobby Krlic (noto anche come The Haxan Cloak), che gioca un ruolo fondamentale nell’amplificare l’atmosfera oppressiva e surreale del film.
La musica combina elementi di folk, ambient e droni elettronici per creare un paesaggio sonoro che è contemporaneamente etereo e minaccioso. È in grado di evocare sia la bellezza che l’inquietudine del rituale e della natura. Tutto mi ha riportato immediatamente alla connessione ideale che l’immaginario sonoro e visivo di Myrkur, ovvero Amalie Bruun, sarebbe stato perfetto come ulteriore elemento di accompagnamento sonoro, chissà che un domani possa scoccare la scintilla tra il regista e l’artista per una collaborazione.
Chiudo con un particolare che forse è sfuggito ai più: omettendo ulteriori spiegazioni, che non descrivo per non rovinare la fruizione del film a chi non l’ha ancora visto, tutta la trama e la sequenza temporale degli avvenimenti in realtà è ben presente fin quasi dall’inizio, in un dettaglio di una parete di una stanza di una abitazione del villaggio. Scoprite voi quale.
Marco Grosso