Siamo spettatori e protagonisti di un’epoca in cui il confine tra autore e opera è diventato talmente sfumato da sembrare un esperimento di arte contemporanea. Grazie alla fusione tra social media e percezione pubblica, il mondo sembra più un’enorme sala del tribunale che un palco di libera espressione artistica. L’effetto bystander, originariamente delineato come la tendenza umana a non reagire nelle situazioni di crisi quando si è in presenza di altri, si è trasformato in qualcosa di ironicamente compatibile con l’arena delle creazioni artistiche.
Qui, la folla digitale si trasforma in giuria e boia, pronta a demolire o esaltare un’opera non sulla base della sua qualità, ma sulla personalità e sull’immagine del suo creatore. Non a caso Jean-Paul Sartre affermava che l’opera avesse vita propria attraverso l’interazione con il lettore.
Nella nostra era digitale, questo romantico concetto probabilmente apparirebbe taggato come un meme. Oggi, gli autori non solo affrontano l’arduo compito di creare, ma partecipano a un reality show permanente, dove la loro celebrità può diventare tanto dolce quanto velenosa. Gli autori sono sempre sotto i riflettori, in un palcoscenico virtuale costruito da like e commenti; dove una reputazione può salire o precipitare grazie a una critica digitalmente crudele o inspiegabilmente elogiativa, a prescindere dalla sua reale validità di contenuto.
La simpatia e l’antipatia giocano il ruolo di filtro magico nella ricezione delle opere, permeando ogni giudizio con una tinta di irrazionalità. La psicologia del bias affettivo ci insegna che le emozioni più superficiali possono radicalmente alterare la percezione. Un autore carismatico, con un sorriso contagioso, un fare piacione, un ego smisurato che straborda e colpisce o una presenza online a tratti ossessiva, potrebbe vendere anche aria fritta durante un uragano.
Al contrario, un’espressione infelice o una dichiarazione sincera ma che vira contro lo status quo, ecco che l’opera di un autore sfortunato sarà messa alla gogna. È sul palcoscenico del pregiudizio che la qualità dell’opera passa in secondo piano rispetto all’aura dell’autore.
Proprio sul “main stage” che è Internet si amplificano le percezioni fino al parossismo. Le discussioni sulla qualità delle opere assomigliano più a processi medievali che a valutazioni critiche informate. La folla digitale si diverte nel polarizzare qualsiasi argomento, trasformando il dibattito sulla validità di un’opera in un tifo da stadio che ignora volutamente ogni prospettiva equilibrata.
Like e retweet si trasformano in sentenze che possono elevare un autore all’Olimpo dei creativi o precipitarlo negli abissi dell’irrilevanza. Consideriamo i casi di J.K. Rowling e Kanye West, icone culturali che oscillano tra vette adoranti e abissi di critica, a seconda delle loro gesta pubbliche.
Le opere di Rowling sono sviscerate e analizzate non solo per il loro contenuto, ma come se fossero trascrizioni dirette delle sue dichiarazioni pubbliche. Le canzoni di Kanye, ormai contenitori di emozioni alluncinogene, sono valutate come se avessero la responsabilità di rispecchiare la sua turbolenta esistenza pubblica.
Qui, la capacità del pubblico di separare l’autore dall’opera diventa un esercizio cerebrale degno di una ginnastica olimpionica. Infine, il gioco del preconcetto non risparmia nessuno e si fa particolarmente crudele con coloro che provengono da minoranze socio-culturali. L’intersezionalità, che potrebbe essere un’opportunità di arricchimento culturale, diventa paradossalmente uno strumento di discriminazione.
Gli autori si muovono in un labirinto di pregiudizi, dove ogni loro mossa rischia di essere mal interpretata. La struttura sociale del pregiudizio colora la ricezione del loro lavoro come un filtro Instagram non richiesto, distorcendo la realtà. Nel contesto della moderna realpolitik dell’apprezzamento artistico, immaginare un domani in cui le opere siano giudicate esclusivamente per il loro contenuto suona quasi come un delizioso sogno a occhi aperti.
In questa utopia improbabile, la fama dell’autore non verrebbe usata come un pregiudizio semplificatore dentro cui incasellare irrimediabilmente la sua opera. Vivremmo in un mondo in cui sarebbe possibile valutare la creazione pura, in cui ci libereremmo dalle catene delle percezioni superficiali e ci espanderemmo verso l’apoteosi dell’ingegno umano.
Mentre è certo che il nostro personale giudizio sull’autore continui a oscurare irrimediabilmente il nostro apprezzamento delle sue opere, riconoscere e affrontare questi bias potrebbe finalmente aprire un percorso verso un’arte apprezzata per il suo valore intrinseco.
Tuttavia, in attesa di questo magnifico cambiamento, restiamo avvinti nella nostra imperfetta natura umana, un presupposto in continua lotta tra cuore e mente, navigando nel caos contorto del volubile tribunale dell’opinione pubblica. Una guerra persa, almeno a oggi, in cui la superficialità trionfa su tutto.
(Marco Grosso)