Intanto non li confondete con i Four Non Blondes. I Concrete Blonde non, senza la s in fondo, non sono quelli del mega-tormentone pop-rock anni 90 What’s Up. Il loro più grande successo, Joy, penso non si sia neanche affacciato nelle principali classifiche italiane, quando in USA, e probabilmente in alcuni paesi europei, fece gridare alla band di Johnnette Napolitano e James Mankey “ce l’abbiamo fatta, cazzo!”.
Io pensavo inizialmente che fossero quelli di What’s Up, lo confesso. Poi ho realizzato di sbagliare e di conoscerli comunque, anche senza saperlo. Erano gli autori di due dei pezzi più fichi nella colonna sonora gonzo rock anni 80 di Non aprite quella porta 2 di Tobe Hooper. Your Haunted Head e Over Your Shoulder li ho ritrovati entrambi nel loro album omonimo del 1986 e per quanto mi siano sempre piaciuti molto, rappresentano solo uno degli aspetti stilistici e creativi del gruppo.
Il mio problema con i Concrete Blonde, perché evidentemente ne ho uno anche con loro, è proprio questo. Sono capaci di fare dell’ottimo rock duro, ma poi nei loro dischi vanno in tante altre direzioni, compresi certi anfratti del pop melenso che proprio non tollero. E pure nelle parti più dure e abrasive del loro repertorio (The Vampire Song, Heal It Up, Walking In London, God Is A Bullet), per i miei gusti di fuorilegge, manca sempre un po’ di potenza, di violenza.
Potevano realizzare grandi album hard rock e persino un po’ heavy, negli anni 80. Hanno sempre avuto le idee giuste per farlo e il talento nel creare melodie accattivanti e cazzute; erano anche in grado di raggiungere certi livelli tecnici niente mali. Ritengo Mankey un chitarrista molto versatile e interessante e la Napolitano sa essere goth, soul e persino metal, se ci si mette.
Purtroppo si sono limitati a bazzicare i confini della musica che amo di più e tirarsi indietro sul più bello. Un po’ come Billy Idol. Adoro alcuni suoi singoli, penso che Rebel Yell sia uno dei pezzi più da fine del mondo mai stati scritti, ma quando sento ogni suo album, alla fine, mi faccio due coglioni così.
I Concrete Blonde, al tempo del successo, mentre Joey faceva tacere le tavole calde di mezza America, sprigionandosi dalla filodiffusione dei locali e stregando un sacco di gente, erano già in giro da dieci anni.
Ecco una prova di come le etichette discografiche operassero al tempo dell’artigianato che dura, quello che ancora ci riempie il cuore e ci fa cantare tutti insieme. Coltivavano i gruppi negli anni, li aiutavano a crescere e perdonavano anche tre dischi flop, prima di abbandonare un gruppo e puntare su qualcun altro.
La Napolitano visse malissimo la notorietà raggiunta co Joey. E nel 1991, quando fu il momento di rimettersi tutti al lavoro per capitalizzare i guadagni ottenuti grazie a quel brano e al disco Bloodletting, lei si sentì stanca da morire. I due titoli che seguirono il best-seller, Walking In London e Mexican Moon, andarono bene, ma non così bene, produssero ottime hits, ma non così ottime. E per un po’, tutto finì.
Mexican Moon, l’album di cui voglio parlarvi, è quello con la produzione più grossa e pesante nella discografia dei Concrete Blonde, almeno nei primi dieci anni. Anche l’atmosfera non è delle più allegre. Si parla di dio che è morto (I Call It Love), dei demoni che infestano la terra al posto suo (Jonestown), di amori finiti sotto il cielo messicano (Mexican Moon) e soprattutto si parla di quanto il mondo dello spettacolo sia vorace e talvolta assassino (Jenny I Read). C’è anche il recupero di una vecchia, grande canzone, dal cassetto dei ricordi: Rain. La Napolitano pubblicò il brano con una precedente band, credo i Dreamers.
Rain è letale se avete il cuore spezzato, un po’ come La volpe di Ivano Fossati. Sono quei pezzi capaci di esprimere fino in fondo l’avvicendarsi di speranza folle e delusione mortifera che danzano nel cuore di un innamorato tradito, abbandonato. E vanno avanti a zampettare sulla pista della disperazione anche per anni.