Una legge empirica, smentibile a volte e altre no, insegna che tante band riescono a dare il meglio nell’album di esordio, per poi progressivamente calare di forza, fantasia, intensità, sprecando in qualche modo il vantaggio e l’effetto “wow” quando appaiono per la prima volta al pubblico. Questo teorema posso applicarlo sicuramente ai tedeschi Scanner, che nell’alveo del power metal hanno creato un primo lavoro fantasmagorico, un secondo buono e poi dopo si sono persi in un marasma di mediocrità.
Debuttare nel 1988 per la Noise significava essere in un gotha di band potenzialmente micidiali e gli Scanner ci provarono, non riuscendo a capitalizzare questo vantaggio. In nuce c’era tutto quello che serviva: grandi canzoni, tecnica e produzione azzeccata, un cantante, Michael Knoblic, dal timbro originale, distinguibile e di grande intensità; e non ultimo un artwork accattivante.
Avevano fatto la gavetta, sotto il nome di Lion’s Breed, acerbi e scalpitanti, guardando agli Helloween di Walls Of Jericho con ammirazione, cercando di captarne le vibrazioni giuste e in questa nuova incarnazione vi riuscirono.
Hypertrace ascoltato oggi non perde un grammo di quella forza e bellezza che aveva; solca le onde del tempo con freschezza e lo si può collocare tra i “classici minori” senza smentita.
Una curiosità: il nome Scanner deriva dai libri di fantascienza di Walter Ernsting, incentrati sulle avventure di Perry Rhodan, relativamente a una sorta di cervello elettrico volante.
Nello specifico la struttura musicale di Hypertrace era supportata da un bel concept fantascientifico, che vi invito a esplorare da soli.
Un’analisi dell’album, un power metal veloce, potente e molto, molto melodico, presenta l’uso massiccio di scale modali e minori che aggiungono un tocco di cupezza e oscurità ai tipici stilemi power, arricchiti da sweeping, legati e tapping fenomenali, che danno un senso di gloriosa e maestosa saudade, pur compensata da un reparto di cori e armonizzazioni vocali che instillano una felice speranza più reattiva.
Quinte e ottave, assoli pentatonici e cromatici rafforzano questo dualismo di “malinconica grandezza”, che un po’ ricorda le strutture e il mood della musica classica russa ottocentesca.
Non c’è un solo pezzo di Hypetrace che non possa essere un potenziale singolo power, nessun calo di tensione, nessun filler. Sulla carta un degno rivale di album più blasonati, ma cosa non ha fatto decollare il tutto?
Intanto dissapori interni, liti, malumori, dettati dalla politica strozzina e vessatoria della Noise, che ha sfruttato tutte le sue band, elargendo loro solo le briciole in termini di denaro.
Se volete chiedervi perché millemila band della label tedesca si sono sciolte o hanno litigato internamente, sì, la colpa è quasi tutta dell’etichetta.
Gli Scanner si rovinano da soli, intanto assoldando S.L Coe alla voce, bravino ma nemmeno lontanamente paragonabile a Knoblic; poi registrando un follow up non degno di Hypertrace, quel Terminal Earth, bello ma molto più anonimo e decisamente meno coinvolgente.
Poi lasciano passare troppi anni, dal 1989 al 1995, per l’uscita del terzo lavoro, Mental Reservation quando ormai la fregola del pubblico per il power metal era già svanita, almeno nei grandi numeri.
Da qui in poi un crollo: cambi di formazione e di cantanti a iosa, il precipitare con etichette sempre più piccole e incapaci di una buona distribuzione, cambi stilistici più morbidi e l’assenza di grandi canzoni, quelle che canticchi sotto la doccia.
Ecco, Hypetrace le aveva. Non è raro che mentre stia sfaccendando per casa mi ritrovi a canticchiare Terrion, Warp 7 o Across The Universe, ben trentacinque anni dopo averle sentite per la prima volta.
La storia degli Scanner ha molte analogie con quella dei Chroming Rose e di altre band di cui spero di parlarvi. Un boato iniziale che fa tremare tutto e poi un’eruzione di qualche pietruzza e mozzicone.
Se volete non rimanere delusi è meglio che ricordiate la Noise senza approfondire la sua storia, perché vi verrebbe voglia di andare a casa del suo boss e picchiarlo forte.
Marco Grosso