Esatto, ora un bel pezzo sui Chroming Rose e le lasciate perse. Nello spartiacque tra la fine degli Eighties e l’inizio dei Nineties, il pubblico affamato di power metal, o speed metal melodico, come si soleva dire allora, stava vivendo una crisi profonda. Nuove tendenze musicali avevano messo diverse band nella necessità di cambiare genere e di trasformare la loro proposta, per diventare più popolari e intercettare soldi e gusti degli ascoltatori. Una ricerca di musica più semplice, essenziale e a tratti ruvida si contrapponeva con le sonorità più pulite, veloci e melodiche, che avevano portato in auge il power e lo avevano assurto nelle cime delle preferenze.
A mio avviso fu proprio la crisi profonda degli Helloween a dare il via a un effetto domino (negativo), per il quale i gruppi power sembravano quasi sparire dai grossi giri, rendendo difficile trovare in Italia i loro album. Il mio ricordo è di tentativi assurdi di reperire dischi, orientandomi come sempre alla ricerca di formazioni super minori, che in qualche modo portavano avanti i suoni dei Keeper o di Walls Of Jericho. Fu così che mi ritrovai a comprare alle fiere gente come Tyran Pace, Stranger, Vectom, Veto, Not Fragile, Attack e Viper, perché nel giro grosso e ben distribuito, il power sembrava sparire nel nulla.
Ipotizzo il punto zero della trasformazione sonora in un fatto preciso: nel 1990 gli Helloween ricevettero una proposta di contratto dalla EMI. La accettarono subito, ma la loro precedente casa discografica, la Noise Records, intentò una causa alla band per la precoce rottura del contratto. Alla fine del processo la sentenza del giudice negò al gruppo ogni pubblicazione esterna alla Germania, al Regno Unito e al Giappone.
Dal 1988 al 1991 gli Helloween scomparvero dal mercato, e tre anni di assenza per i principali alfieri di un genere, soprattutto a quei tempi, significava rischiare di far svanire dalla mente del pubblico più mainstream un intero sottogenere. La Emi, spaventata, e incerta su come sarebbero andate le cose, cercò un surrogato in attesa di eventi favorevoli, ben impressionata a esempio, dal successo dei loro Axxis.
Speranzosa di rilanciare un certo tipo di musica più melodica, che tanto aveva riscosso successo e fatto tintinnare le casse, lo trovò nel 1990 con i Chroming Rose. La intricatissima e impetuosa storia della band nasce sul finire degli anni 80, quando con una formazione assai diversa, e sotto il moniker di “Croming Rose” senza la H, uscì un demo, Born To Destroy, che suonò molto diverso da quanto sarebbe venuto poi.
Un lotto di tracce che ricordavano i Lizzy Borden, linee vocali alla primi Virgin Steele, un po’ i Queensryche e lo speed metal grezzo intriso di metal primordiale. Tutto cambiò quando il rimescolamento di formazione portò dentro S. C. Wuller alla chitarra e Gerd U. Salewski alla voce, (già negli Stranger di The Bell).
Tra ex chitarristi alcolizzati, contratti già firmati e poi ricomprati (da Desaster a EMI appunto), un disco registrato male e rifatto da capo, la band sfornò un esordio davvero da leccarsi i baffi: Louis XIV. La storia precedente l’album meriterebbe almeno dieci pagine di racconti, ma la farò breve.
Ricordo che ascoltai a Radio Peter Flowers due tracce: Power And Glory e Louis XIV e ne divenni matto. Cercai per settimane l’album, che trovai finalmente ad Alessandria, da Blue Box. Un vinile confezionato in una moneta d’argento gigante con l’effige del Re Sole, che non vedevo l’ora di mettere sul mio piatto della Sony.
In soli 36 minuti (inspiegabile e folle lasciare fuori due inediti, Shoot The Fox e Angel, speed song stupende e relegate al solo cd, allora reperibile esclusivamente come import giapponese a prezzi folli), i Chroming Rose riuscirono a produrre un raffinato e validissimo power metal melodico, di pochissimo inferiore ai Keeper degli Helloween.
Assoli armonizzati, riff e melodie originali, accativanti, strutture neoclassiche, ritornelli incredibili, potenza, perizia tecnica, c’era tutto quello che un fan del power metal voleva fortemente. Concetto ribadito dalla stessa band nelle interviste:
“Volevamo portare qualcosa di unico nel power metal, mescolando elementi classici con riff potenti. Era importante per noi non solo seguire la corrente, ma creare un’identità musicale riconoscibile.”
In Giappone l’album arrivò al numero 1 dei dischi import e sembrava tutto perfetto. Tour con Saxon, U.D.O, Pink Cream 69, alberghi in cui fecero bisboccia alcolica con W.A.S.P e Iron Maiden. La gloria si toccava quasi con un dito, sembrava il preludio a grandi cose e invece…
Invece tutto iniziò ad andare a puttane. In primis i vari musicisti presuntuosamente si sentivano rockstar e iniziarono a sperperare i guadagni in folli spese, tra moto, auto di lusso, vizi ed eccessi, poi ulteriori cambi di line up dovuti a dissapori e frizioni interne indebolirono la band a livello compositivo, poiché dopo un solo disco già si sentivano arrivati.
La mazzata, secondo me fu la delusione e l’abbandono del pubblico pagante per il sequel, Garden Of Eden, che cambiava direzione totalmente, un disco fiacco, spompo, pieno zeppo di mid tempo banali e mediocri, che sembrava il pallido ricordo delle cavalcate melodiche in doppia cassa dell’esordio. Album che i Chroming Rose avevano registrato con in mente il tarlo del assecondare i nuovi gusti degli ascoltatori, pensando che un altro disco power metal non avrebbe venduto, adattandosi ai nuovi trend.
Il secondo parto è davvero brutto, inutile e dannoso. Persino peggio il terzo capitolo Pressure, sempre su EMI, che mi chiedo come mai si ostinava a tenere quei catenacci nel rooster, quando poteva avere molto, ma molto di meglio. Oggi mi viene da pensare che quel mezzo capolavoro fu soltanto un caso, un colpo di fortuna, una fiche giocata subito bene al casinò, poi affogata in una sequenza infinita di uscite del rosso quando puntavano solo sul nero.
Vincevano subito la milionata e dopo due ore si vendevano l’orologio e la cravatta, per uscire pieni di debiti e in mutande. Un’occasione buttata al cesso, rimpianti e rimorsi, tanto che dal racconto dei protagonisti, si narra di superstar in nuce viziati dai soldi e dagli agi ridotti a lavorare come fattorini e impiegati, suonare per hobby il sabato sera in cover band locali, con pezzi di Judas Priest e Iron Maiden, sostenuti da uno scarso pubblico di trattoristi tirolesi gonfi di birra e salsicce, impazienti di ruttare sotto al palco e svenire nell’odore della propria fetida urina.
Ma come in ogni storia, c’è almeno uno pseudo lieto fine? Sì, Louis XIV resta un disco magnifico, molto suggestivo, che nessuno può portarci via. Fa risognare un me stesso nei suoi vent’anni, per un momento mi fa pensare al gioco “e se avessero…”, ridestarmi e sperare di non incrociare il contadinotto della Carinzia che mi piscia su di un piede, perché sbronzo e barcollante. Stare a sud di Innsbruck garantisce una certa sicurezza, forse.
Marco Grosso