Ames de marbre è incentrato sul trapasso, sulla morte intesa come spiffero costante sull’anima dei vivi. Ci sono gli angeli doganali, indifferenti, che trattengono il corpo ma lasciano passare lo spirito. Esso si avvia incerta verso qualcosa che non è poi così rassicurante, conciliatore, sereno come ci hanno sempre raccontato. Se non si parla di morire, nelle canzoni si insiste sull’avversario della morte: l’amore. Il solo che sfida l’ineluttabile, al punto di spingersi fin dentro l’ade e reclamare qualcosa usando la musica.
Roba pesa, certo, ma il death metal è sempre stato pregno di filosofia, di poesia, come hanno dimostrato a più riprese gli Opeth e i My Dying Bride meglio di tanti altri. Non è tutto Autopsy, Entombed e Cannibal Corpse, come hanno inteso le nuove generazioni revivaliste. Agli inizi degli anni 90, quando la prima ondata di band estreme aveva definito le coordinate del genere, sia in Europa che negli Stati Uniti, si proposero interessanti e per lo più dimenticate realtà ricche di coraggio e inventiva che partirono dalle ceneri degli Obituary e dei Dismember per donare al genere sfaccettature molto intriganti.
In fondo nulla che già i Celtic Frost non avessero tentato con Into The Pandemonium. E non è un caso, a quanto sembra, che i Sadness, anche loro svizzeri, di Sion, avessero accompagnato la band di Gabriel Fisher in qualità di roadie lungo le strade di quei temerari anni 80.
I Sadness avvicinarono con decisione il metal estremo ai Cure e i Christian Death, aggiungendo una serie di strumenti ormai forse scontati ma che negli anni 90 sorprendevano molto il pubblico: vale a dire gli archi, le voci femminili, i flauti orientali, tra cui il Shakuhachi e altri effetti rumorosi che suscitano ancora oggi, se ascoltaste il disco sdraiati sul vostro lettino, al buio e al freddo di una notte invernale, suggestioni romantiche ma pure una discreta dose di inquietudine terrigna.
L’album infatti si addentra in selve oscure, non si sa bene dove ci trascinino i Sadness e soprattutto cosa possa essere entrato dalla porta che ci hanno aiutato ad aprire e attraversare, dopo che noi abbiamo spento la musica e siamo rimasti in attesa di sentire ancora lo strano rumore che ci era parso di avveritre con Ames… a tutto volume.
C’è sicuramente molta dolcezza poetica in questo disco, come nel finale di Antofagasta, nome che richiama alla città cilena affacciata sull’oceano Pacifico e che in lingua quechua significa “città del grande letto di sale”. Forse non centra una pippa il collegamento, ma il brano è tra i più avvolgenti ed emozionanti: tra le grida di corvi su un andazzo darkettone e i versi rantolanti di Steff, che celebra il distacco di qualcuno, forse proprio noi, dalla follia umana e dalle atroci sofferenze terrene. Egli si innalza verso un cielo infinito e un’eternità appena sufficiente a esplorarlo tutto quanto.
Interessante l’uso delle voci. Risultano sia Steff che Andy come vocalist, ma c’è anche una certa Cristina. D’accordo, nello stesso periodo, in ambito goth-doom, la voce femminile che interviene nei brani pesanti è già ritrita, ma nel caso di Ames… bisogna fare attenzione perché la band la usa per creare una specie di botta e risposta con quelle maschili, che sono molto varie, talvolta growl, urlanti di disperazioni, viscide e sussurrate. Esempio è il caso della funerea Red Script, quando la voce di lui tinge con le parole l’immagine di un incontro ultraterreno.
La voce femminile glielo conferma, è così, lei è vera, ma tra i due ecco che i canti si sovrappongono fino a formare non più un dialogo, ma due monologhi intrecciati che dicono la stessa cosa, chi prima e chi dopo. Sembra quasi che i Sadness vogliano rappresentare l’impossibilità della comunicazione tra mondi distinti, il maschio e il femminino. Ma forse esagero. Restando sull’apparato narrativo del pezzo i due spiriti si cercano, si intravedono nel fondo di un reciproco sguardo allo specchio. L’incontro avviene ma è tragico, un vivo e una morta possono solo relazionarsi in un tragico, per lui, sodalizio vampiresco. Un intruglio così ben mescolato tra amore, morte e necrofilia l’ho assaggiato solo in Forest Of Equilibrium dei Cathedral.
Ma diciamo che una gestione così teatrale delle liriche non si trova in nessuno dei grandi nomi inglesi del periodo, e solo i Cradle Of Filth avrebbero tentato questa via più avanti. Anche in Tears Of Sorrow c’e un dialogo tra un uomo e una donna appartenenti a diverse dimensioni. Inizia con il rumore ritmico di una pala che scava e poi la musica cresce senza diventare aggressiva, con l’uomo che intona una serenata sghemba. Il poveretto cerca di sedurre l’oscurità stessa ma non sa a cosa sta andando incontro.
Vuole essere accolto da mani invisibili nel buio della fossa. La melodia si arricchisce di strumenti e si trascina come un vecchio carro funebre guidato dai Cure e poi si pianta in una palude di note minacciose: brevi stoppate di basso rintoccano l’arrivo di qualcosa che forse non si voleva davvero raggiungere. La voce narrante di lui diventa patetica, implorante, come quella di Tom Warrior in Mesmerized. Ma lei conclude che: “ormai abbiamo gettato un ponte di pietra tra le nostre due anime e il sangue che ci ha uniti scorre sotto il suo arco… Sarò in grado di attraversarlo quando verrà il momento e aprirò la strada al tuo cuore”
Non so perché ma non suona come un lieto fine.
Stroncati senza pietà dal solito Massignani su Metal Shock, i Sadness vanno assolutamente recuperati. Ames of ambres è un lavoro bellissimo. Si dice il loro picco assoluto, seguito da un altro disco, Dantenferno (1995) e un Ep, Evangelion (1997), non all’altezza di questo exploit.
La copertina, con quegli africani truccati da blacksters, è fichissima.