Permettete che vi presenti un nostro nuovo collaboratore, una cosa che non faccio mai. Nel caso di Tony però mi scappa di dire due parole. Sono orgoglioso di accoglierlo nella scuderia di Sdangher (e nell’adiacente stalla) dopo una lunga corte che mi è costata tre scatole intere di maionese e un vecchio libro di Giobbe Covatta autografato da mio padre.
Tony Paul Bevan Rossi, un nome che è una trinità, un giornalista italo-gallo-irlandese che vive sulle proprie unghie sudicie e macchiate di tabacco la storia del rock fin dai tempi in cui accadevano davvero le cose che facevano la suddetta Storia. Non uno sbarbato vittima del fascino recondito di Padrecavallo che dopo due recensioni si propone a Tsunami e nemmeno un fuggitivo dall’ovile fuzziano che non vede l’ora di scrivere uno speciale sugli Ugly Kid Joe. Qui abbiamo un veeero professionista. Il secondo dopo Marco Grosso. La nostra redazione con lui si fa più ricca di gente che vive di scrittura e che mangia grazie alla comunicazione.
Due info al volo. Tony è nato nel 1950, ha attraversato gli anni della contro-cultura, il progressive, la new wave, il punk e il post-la qualunque di questi ultimi insulsi decenni. Ama un sacco di cose e ha una visione trasversale, come ogni equino che si rispetti. Da Bach ai Beach Boys, dai Throbbing Gristle a Rob Zombie, dai Cynic a Jack White, Tony accoglie, metabolizza e caga fuori alla grande pezzi di alta scrittura. Vi lascio a lui. Godetevelo tutto, come siete abituati, a gratis.
11/12/2024
Nelle stesse edizioni: i telegiornali italiani presentano meglio la giunta islamo-estremista che occupa la Siria rispetto a chi non si è fatto siringare da Stato e multinazionali; tal Damiano che farà un giro all’estero ha più rilevanza di Eric Clapton che torna in Italia; In Cina presentato un robot sferico per “catturare i criminali”.
Appunto: ascoltare Rebels in Afghanistan dei Front Line Assembly venti volte.
Negli ultimi anni è opinione generale che c’è un ritorno all’estetica complessiva degli anni 1980.
Quanto di ciò sia reale è poco avvertibile, specie dalle generazioni che non hanno vissuto il periodo. Stupisce il livello d’incoscienza o malafede in chi quegli anni li ha vissuti: si tratta di uno scimmiottamento che viene fatto passare per riproposizione, neanche un tributo.
Tutto ciò non è però un fatto degli ultimi anni: è un percorso, partito due decenni fa, dopo che il periodo fra il 1991 e il 1994 era stato il palcoscenico per l’eversione artistica e propagandistica effettuata da un’industria dell’intrattenimento meschina e cinica. Aveva sguazzato nei fasti di quel mondo, in tutti i suoi campi, per poi scaricarlo e aizzandogli contro il pubblico, facendo credere che l’eversione fosse genuina sovversione alternativa del “decennio di plastica”, come i testicoli di chi propose questa banalità.
Questa piccola disamina che spazia su due decenni, è un tentativo di analisi di questa mistificazione che, nell’ambito musicale è micidiale nell’alterare il gusto delle persone.
Alludendo senza veramente citare, pappagalleggiando pensieri di altri, svilendo senza mai apprezzare realmente, prostituendo e stuprando senza mai rispettare, oggi si pensa che usando qualche scala diversa, una camicia hawaiana, un sequencer, un rullante compresso e riverberato (male) più qualche accessorio di vestiario, si riproponga genuinamente un’estetica.
In campo Metal, la valanga di gruppi che passano sotto l’etichetta NWOTHM sono poco più che fuffa, a parte pochi artisti. Quelli Glam sono spesso posticci.
A modo suo, quello che ormai è il decennio maledetto, ha la capacità di far emergere le contraddizioni; il problema è se qualcuno le coglie.
2004
E’ dal “ritorno” (non s’erano mai sciolti) dei Duran Duran, nel 2004, che la stampa sproloquia di un relativo ritorno del decennio maledetto in tutti gli ambiti dell’intrattenimento, addirittura le più piccole testate locali. Amplificavano qualunque assurdità nello stile, oggi dominante, di “ripeti quel che fanno i grossi” per cui una notizia di stampa, non verificata, diventa verità ufficiale se risponde al clima dominante.
All’epoca c’era tutt’altro: i canoni espressivi erano diversi in modo estremo e gli stessi Duran erano ben poco ottantiani anche nel suono. Fra chi ebbe un po’ di successo, ci provarono i The Darkness: crearono un ibrido di settanta e ottanta ma s’inabissarono dopo la fiammata dei primi due dischi, vissuti già allora come bizzarrie simpatiche quasi analogamente a come fu percepita l’ironica musica da festa dei B-52’s a fine anni 1970.
Fu l’anno dell’ultimo grande successo in termine di vendite in ambito Rock e Metal: i The killers esordirono con uno dei dischi più generici e imbarazzanti di tutti i tempi. Il Metal stesso ci stava mettendo del suo, col ritorno dei gruppi scaricati dall’industria dieci anni prima a fingere qualcosa che era staccato dalla realtà.
Assurdità dilaganti già allora, mentre il Metal più giovane si dirigeva a spron battuto verso Doom di vario tipo, Sludge e Stoner in testa, chiudendosi in una fortezza che comunicava poco con l’esterno. Il Rock affondava nella noia piccolo borghese e sinistrosa dell’indie snob e dell’elettro hiphop che si sarebbero imposti in seguito.
Dieci anni dopo – 2014
Veniva ripetuta la stessa solfa, dopo che l’unico gruppo con una produzione professionale da lustri, i Bad City, non avevano avuto nessun successo nel riproporre un Glam Metal aggiornato senza esser snaturato, una versione vagamente Power Pop dei Motley Crue del 1994. La Synthwave si stava già esaurendo. Meglio sorvolare su pellicole cretine come Rock of Ages. Ondate di fiamma andavano e venivano senza sosta mentre il mondo obamiano destabilizzava quello islamico e l’Ucraina.
Il decennio maledetto era lontano anni luce dall’indie e dall’hiphop, anche gli ottimi Vektor erano altrove.
Vent’anni dopo (e senza moschettieri)
Siamo davvero nei nuovi anni ottanta? Sì, ma senza le parti belle. Sembra d’essere all’interno della copertina di The Plague dei Nuclear Assault o fra le righe di Cities Gonna Burn dei Laaz Rockit o in Digital Dictator dei Vicious Rumours, ma senza la loro tragica e colossale epicità. Gli scenari della nostra attualità sono funerei e gonfi di cibernetica che non è lontanamente interessante come gli incubi di James Cameron di allora.
Il video di Eighties dei Killing Joke è più attuale che mai, il revival dell’AOR fatto dagli svedesi è pacchiano e ammorba le classifiche dei Rymtardati o di quelli che tristemente fingono grandi cose che accadrebbero in Scandinavia, nel Rock i pochi gruppi decenti come Station, Dutch Uncles, LeBrock, The War on Drugs non se li filano in molti.
Ogni due anni la parola magica revival appare, ma ai loro tempi quelli di Folk, Blues e Psichedelia furono ben altra cosa. Revival significa ravvivare con un’accezione vitalista e non per “vendere un prodotto”, odioso anti-mantra che spopola nelle bocche di molti, anche di chi non vende nulla ma prende la vita come commercio di tutti nel senso di unica possibilità reale.
Qui e ora domina la pacchiana plastificazione alla quale avanguardie varie si prostituiscono ma a cui gli anticonformisti devono ridere in faccia e darsi da fare, se vogliono che i frutti migliori dell’immaginario del secolo scorso diano a loro volta nuovi, meravigliosi o almeno interessanti frutti.
(Tony Paul Bevan Rossi)