Disharmonic Orchestra – Come polipeptidi di una mente altrui

I Disharmonic Orchestra (che di solito per motivi razziali e di senilità sono accostati ai Pungent Stench) attendono ancora una rivalutazione. Sono stati tra i nomi più interessanti del death di inizio anni 90 e, come è successo a molti altri di quella progenie, hanno finito per disintegrare la matrice forsennata e gorgogliante del genere, per creare una personale versione di ciò che è estremo. Questo povero trio però non è stato protetto e assistito nella fase più audace e spericolata della propria evoluzione.

Pleasuredome, uscito per la SPV, dopo che la band aveva realizzato i due precedenti album con la giovane Nuclear Blast, è stato promosso poco e niente e capito ancora meno. Anche a distribuzione non è che le cose abbiano funzionato granché, ma sono sicuro che se ce l’avessero tirato agli ingressi dei supermercati, nel 1994, difficilmente qualcuno di noi l’avrebbe portato a casa.

Purtroppo nel momento in cui i Disharmonic avevano bisogno di supporto e comprensione, furono mollati in un tunnel di indifferenza. Questo li spinse a fermarsi, ad arrendersi. Metteteci pure la stanchezza di sette anni trascorsi a tentare di crescere ed emergere, sopportando la frustrazione e la delusione di una scena che non voleva proprio accettare chi imboccava percorsi più inquieti e rischiosi. E in questo senso i Disharmonic Orchestra, come ci racconta Marco Tripodi in questo bel pezzo, non sono mai stati gli stessi per due album di fila.

Nel death hanno sempre avuto ragione i Cannibal Corpse che, a parte l’aumento del tasso tecnico a ogni disco, non hanno cambiato una virgola della loro formula. Persino i Cynic e gli Atheist “si erano sbagliati”. E nonostante i critici, specie gli italiani del tempo, evocassero maggiore impegno e voglia di sperimentare dalle band estreme post-1993, fu proprio quella smania di cambiare e ridefinire le coordinate del death metal che portò a un punto morto la maggior parte dei gruppi di maggior talento in circolazione di fronte a un mercato che non li accettava e preferiva la noia di quattro riff e grugniti in croce, anziché intervenire su di essi con ingredienti elettronici o progressivi.

Persino i Carcass, la cui evoluzione gli arrise un notevole successo di pubblico con Heartwork, deragliarono poco dopo in Swansong e i Pestilence, appena pubblicato Spheres, pasticciando con la fusion, decisero pure loro di arrendersi a una platea birresca e ottusa. Vedete quindi in che bella compagnia si ritrovarono i Disharmonic Orchestra.

Sì, ripresero nel 2002, un ritorno incoraggiato dalla Nuclear Blast. Ma così come tutti gli altri gruppi che “vollero complicare troppo le cose”, fallirono il rilancio; riuscirono a mantenersi interessanti ma l’interruzione dei primi anni 90 aveva irrimediabilmente compromesso quello slancio “Ahead”; aveva fatto perdere il bandolo creativo agli At The Gates, ai Cynic e persino i Carcass.

Se una parte di quel pubblico deluso era finalmente cresciuto e aveva avuto tempo e modo di recuperare dai negozi dell’usato i dischi che non era stato in grado di comprendere e amare al tempo dell’uscita, non era più così semplice per quei gruppi riformati e un po’ rimaneggiati, seguire con la medesima trans-lucidità il proprio percorso in un sistema discografico in radicale cambiamento.

Pleasuredome è, come ha scritto bene qualcuno in giro per la rete, “una forma di thrash evoluto e un po’ ballerino”. In effetti l’inquietudine ritmica è una costante di tutti i lavori della band, ma l’apparente alleggerimento che deluse molti fan, sia per il cantato che per le concessioni al metal tradizionale dei riff da parte di Patrick Klopf permise ai Disharmonic di esprimere ancor meglio una vena esistenziale ironica e disperata insieme, con melodie avvolgenti, ritornelli efficaci e la sensazione oggi palese di una svolta verso qualcosa di molto sofisticato e intrigante.

La voce è urlata e non più gutturale ricorda un po’ le thrash band tedesche, mentre il continuo saltabeccare tra batteria e basso trascina il tiro del gruppo verso una specie di rabbiosa isteria; non lo nascondo ma a volte Martin Messner ha talmente girato e rigirato i tempi sotto i riff da mandarmi in confusione; come un bambino a cui il papà fa provare una vertigine lanciandolo e girandolo tra le braccia, per divertirlo e spaventarlo assieme.

Off The Ground, Fall Colours Fall e The Silence I Observe sono i momenti saliente di un lavoro che meriterebbe di essere riscoperto e ascoltato con fiducia nei prossimi anni. C’è il potenziale per la nascita di un nuovo sottogenere, qui. E per ogni sdanghero che si rispetti, Where Can I Park My Horse, è un inno punk ideale in mezzo agli ingorghi e al traffico più palustre.