Vinnie Moore – Quando la mente ha i suoi occhi interiori

Qual è il più bel disco di un “guitar hero” in assoluto? Di Yngwie Malmsteen, Steve Vai o Joe Satriani? Ognuno ha il suo, ognuno ha un chitarrista nel suo cuore, che sia più tecnico o più emozionale, i gusti sono gusti. E il mio? Con questa scusa posso parlare di un album incredibile, e personalmente il mio preferito in assoluto. Si tratta di “Mind’s Eye” di Vinnie Moore.

Un lotto di pezzi che sa scaldarmi il cuore ed emozionarmi sempre; a ogni ascolto è come se lo scoprissi per la prima volta, non mi stufa mai e mi regala  grandi sussulti e piccole scoperte sonore, a cui magari non avevo già fatto caso, che si svelano piano piano e con l’assimilzazione continua.

Sia chiaro, ho seguito e amato l’ondata di shredders fin dal giorno zero, nella mia collezione ho tutti i dischi di Tony McAlpine, Jason Becker, Joey Tafolla, Marty Friedman, Chris Impellitteri, Lars Eric Mattsson, David Chastain, Tony Fredianelli, M.A.R.S e i Cacophony, non ho mai smesso di amarli e non lo farò mai.

Il climax e l’interesse spasmodico per questo tipo di album, sia come gradimento di critica che di pubblico, ebbe il suo picco di apprezzamento in una manciata di anni tra il 1985 e il 1990, soppiantato poi da nuovi trend. Molti di questi chitarristi in seguito hanno virato su sperimentazioni più jazz/blues/rock, a mio avviso non restando sui livelli di quei primi dischi.

La musica strumentale mi ha sempre affascinato, perché senza una voce e relativi testi, deve sapere raccontare ancora meglio una storia, sviluppare una continuità di significato all’interno di un album, compito difficilissimo. O ci riesci bene, oppure viene una merda. Mezze misure, a parer mio, non esistono.

La vera difficoltà in questo tipo di album è  di esaltare il solista con dei musicisti di rinforzo tecnici, abili, fantasiosi e molto creativi, ma al contempo in grado di non sovrastare od oscurare il protagonista. Pochi progetti sono stati in grado di fare questo.

Vinnie Moore ha debuttato da solista a 21 anni con “Mind’s Eye” nel 1986, anno fertile con ampi spazi di creatività da esplorare, con l’ondata di chitarristi solisti trainati dal successo planetario di “Trilogy” di Malmsteen. Dopo un bellissimo album, “Soldiers Of The Night” inciso con i Vicious Rumors, viene notato da Mike Varney, che lo butta in studio, impiegando soli 4 giorni per registrare le sue parti, a fronte di 11 giorni totali per l’intero lavoro.

Totalmente strumentale, l’album vede una line up stellare: Andy West al basso, proveniente dai Dixie Dregs di Steve Morse ha un gusto raffinato e una versatilità mostruosa, utilizza spesso arpeggi e scale modali per complementare le linee di chitarra di Moore e il suo approccio include tecniche come lo “slap and pop”, sebbene siano usate con moderazione, per aggiungere accenti ritmici.

West costruisce linee di basso che fungono da contrappunto alle melodie della chitarra, utilizzando la scala dorica per fornire un’infrastruttura armonica solida. Tommy Aldrige, uno dei batteristi più completi in ambito hard and heavy, in questo disco imposta un groove solido, utilizzando un range di elementi esteso.  Fa largo uso di doppia cassa per accentuare i momenti di massima intensità; la sua abilità nell’uso di tempi composti e di fill intricati contribuisce a mantenere l’ascoltatore impegnato e ha qualche spazio solista all’interno di alcuni brani, in cui mostra la sua immensa tecnica al servizio del gusto.

In generale la sezione ritmica vede West spesso seguire le pause e le variazioni dinamiche della batteria, per creare un tessuto sonoro intricato e coeso. Aldridge è abilissimo nel passare da ritmi potenti a parti più delicate. La sua interazione con West è evidente nelle sequenze in cui il basso e la batteria scompaiono quasi in contemporanea, creando momenti di tensione e rilascio che enfatizzano le linee solistiche di Moore.

Tony McAlpine, anch’esso guitar hero di prim’ordine, è arruolato qui come tastierista, confermandosi un fuoriclasse anche in questo ambito. Egli crea atmosfere ricche, sovrapponendo pad e string synth per arricchire il suono. In alcuni brani il suo uso dei sintetizzatori è ispirato dalle orchestrazioni classiche, spesso impiegando la scala minore armonica per mantenere l’atmosfera neoclassica.

Anche se più discreto rispetto alle sue performance chitarristiche, MacAlpine si esprime con assoli di tastiera che si intrecciano con le parti di chitarra di Moore, utilizzando tecniche simili alle sue, traducendo arpeggi e fraseggi veloci sulla tastiera per mantenere l’energia del brano.

Vinnie Moore in questo album utilizza un uso estensivo di scale modali, in particolare la scala eolica (naturale minore) e la scala frigia, che spesso arricchisce con note cromatiche per aggiungere tensione e colore. La scala minore armonica è evidente nei suoi fraseggi neoclassici, che richiamano la musica di compositori come Bach e Paganini.

Impiega tecniche avanzate di plettrata alternata, sweep picking e legato per eseguire passaggi virtuosistici con fluidità e velocità. Le melodie di Moore tendono ad essere complesse, spesso costruite su arpeggi o su progressioni di accordi che permettono modulazioni interessanti. Utilizza spesso il tapping per estendere la gamma espressiva.

Ogni brano di questo lavoro è perfetto, centrato, intenso, emozionale, laddove la tecnica non è uno spreco temporale di note, ma un linguaggio ben padroneggiato per narrare una storia coesa.

Si parte con “In Control” dal tema potente che stabilisce subito l’atmosfera energica e rockeggiante. La struttura è suddivisa in sezioni che consentono ampie esplorazioni solistiche, intervallate da riff incisivi. Moore suona scale modali come l’eolica e la mixolidia. Gli assoli sono caratterizzati da rapide sequenze di note e fraseggi complessi.

Per me “In Control” trasmette un senso di potere e determinazione, riflettendo il controllo tecnico e compositivo di Moore.

“Daydream” ha una struttura più rilassata, con un tema centrale malinconico che viene sviluppato attraverso variazioni melodiche e armoniche. L’uso del legato e del bending espressivo si combina con scale minori, aggiungendo tensione emotiva. Moore impiega anche tecniche di volume “swell”, ovvero l’attacco graduale delle note e il crescendo di volume che simula un violino suonato ad archetto, per creare effetti atmosferici.

“Daydream” evoca un senso di introspezione e tranquillità, attraverso le sue linee melodiche dolci e riflessive. “Saved by a Miracle” è un brano dinamico che alterna sezioni veloci e lente, con transizioni fluide tra diversi tempi e atmosfere. Gli arpeggi sweep sono prominenti e si integrano con il tapping per creare una texture sonora ricca.

La scala minore armonica domina la struttura armonica. Il brano a me racconta una storia di speranza e superamento di difficoltà, espressa attraverso cambiamenti dinamici e intensità esecutiva.

C’è poi “Hero Without Honor”, strutturato come una suite, che presenta temi ricorrenti esplorati e riportati nel corso del brano. Qui Moore utilizza tecniche di armonici artificiali e doppie note per dare un carattere eroico ed epico. L’uso di moduli ritmici complessi aggiunge varietà e tensione. Tutto questo mi ricorda il senso di lotta e nobiltà d’animo, con un tono che oscilla tra il drammatico e il trionfante.

La title track “Mind’s Eye” fonde una varietà di idee tematiche, con una struttura che accompagna l’ascoltatore attraverso paesaggi sonori differenti. Vinnie alterna fraseggi melodici a scale complesse, impiegando la scala frigia dominante con un sapore esotico. Le linee di basso di West forniscono un contrappunto sofisticato e armonico.

A ogni ascolto mi sembra di percepire temi di visione e percezione extrasensoriale, utilizzando la musica per trasportare l’ascoltatore in un viaggio mentale. “N.N.Y.” si pone come un brano vivace con una ripartizione in più sezioni, che alternano motivi contrastanti tra rapidità ed espressività: l’uso della plettrata alternata è notevole, con passaggi in scala dorica e pentatonica minore che conferiscono un carattere bluesy e rock. Di tutte le tracce è quella che mi ispira un tono più spensierato e giocoso, riflettendo un senso di avventura e scoperta spontanea.

Verso la fine c’è poi “Lifeforce”, che tritura ritmi energici e melodie potenti, con transizioni fluide tra diverse intensità e tempi. L’uso di gamme armoniche estese, attraverso tecniche di tapping e scorrimento su tutto il manico, offre una ricchezza di variazioni tematiche. Le tastiere di MacAlpine arricchiscono il brano con armonie orchestrali. Subito mi evoca la vitalità e l’intensità della vita, con sensazioni di crescita e trasformazione.

“Shadows of Yesterday” si apre con una melodia che evoca nostalgia e riflessione. La struttura del brano è costruita in modo da consentire transizioni tra sezioni melodiche sviluppate e sequenze più ritmiche e dinamiche. Qui impiega una combinazione di scala minore naturale e scala minore armonica, utilizzando armonici e bending per aggiungere espressività.

Le parti di chitarra sono intervallate da arpeggi complessi e passaggi di legato che rendono il fraseggio fluido e coeso. A me suscita un tono riflessivo e contemplativo, memoria e nostalgia.

“The Journey” conclude l’album con una composizione che simboleggia un viaggio musicale, caratterizzato da un’introduzione solenne che si evolve in una sezione centrale vibrante e dinamica. Il brano è composto da diverse sezioni, che rappresentano tappe di un viaggio, ciascuna con un carattere distinto ma coeso.

Moore sfrutta scale come la lidia e la frigia per creare un senso di esplorazione e scoperta. La combinazione di sweep picking, legato e plettrata alternata dimostra il suo virtuosismo, con un focus sulle transizioni tra diversi stati emozionali. Le parti di batteria di Tommy Aldridge contribuiscono al movimento del brano, guidando i cambi di tempo e dinamica.

Personalmente mi trasmette un senso di avventura e crescita, riflettendo temi di scoperta e realizzazione personale. Il climax del brano offre un senso di completamento e compiutezza, perfettamente adatto a concludere l’album. Registrato nella metà degli anni ’80, l’album sfrutta le tecnologie analogiche dell’epoca e la produzione tende a preservare un suono autentico, catturando la performance diretta dei musicisti senza eccessive post-produzioni.

Il suono della chitarra è cristallino e definito, con un ampio uso di distorsione e molto gain; l’approccio di Vinnie Moore al suono della chitarra punta a un’alta fedeltà, che permette di sentire ogni nota e sfumatura delle sue complessità tecniche. Moore fa uso di vari effetti come il delay e il riverbero, per dare profondità al suono della chitarra e creare ambientazioni sonore avvolgenti.

Questi effetti sono gestiti con misura, senza mai offuscare la chiarezza delle esecuzioni, grazie ad amplificatori valvolari che garantiscono un suono caldo e ricco, un buon bilanciamento di overdrive, chorus, e reverbero. Attraverso una grande velocità di esecuzione e armonici chiari, usa sapientemente effetti di bending e dive bomb. Il basso e la batteria offrono una solida base ritmica, supportando le linee melodiche della chitarra senza sopraffarle.

La batteria ha un suono potente e incisivo, mentre il basso tende a essere più morbido ma ben presente, mantenendo un equilibrio dinamico complessivo. Il mix di “Mind’s Eye” è bilanciato, con la chitarra ovviamente in primo piano, data la natura virtuosa dell’album. Gli altri strumenti sono tarati in modo tale da supportare e arricchire, piuttosto che competere con la chitarra.

Nella mia visione personale, il feeling generale di “Mind’s Eye” è tanto glorioso, epico e gioioso quanto introspettivo, malinconico e introverso, la “panoplie” di colori musicali è impiegata totalmente nel suo insieme, rock, metal, neoclassicismo, in un equilibrio notevole tra le sue parti. Lo ritengo un disco perfetto perché non è troppo sperimentale o classicheggiante, ha delle melodie memorizzabili e riconoscibili, energia e dolcezza, stratificazioni e linee secondarie quasi soffuse e nascoste ma ricche e piacevoli.

Non ultimo il fatto che ogni musicista ha il suo spazio e la sua creatività in evidenza, messa al servizio della chitarra di Vinnie Moore, che è protagonista ma non offusca affatto la backing band. Un disco che ha superato con freschezza le burrasche cicliche del tempo, invecchiando benissimo, risultando attuale anche oggi, al netto di tonnellate di emuli, cloni e copycat di ogni risma. Come ho detto in apertura, questa è una mia personale opinione, quindi ben venga il dissenso o il rinforzo a essa, come è giusto che sia, spazio a chi legge per dire la propria.

Marco Grosso