Se oggi si parla e scrive dei Sodom, almeno dai tempi di M-16, non si fa altro che innaffiare di retorica metallara l’indomito cammino di questi veterani del thrash teutonico e via di melensaggini complimentose e ridondanze biografiche che ormai conosciamo tutti a memoria. Personalmente ho l’impressione che sia stato rimosso un periodo molto particolare della band. Non intendo dire che, in un contesto monografico si salti a piedi pari la stagione purgatoriale in cui la band è precipitata, dal 1992 al 1997, poco dopo aver raggiunto le “indiscutibili” altitudini di Agent Orange e da cui è risalita a colpi di album thrash brutali e senza giri di parole come Code Red. Si parla eccome degli anni difficili e ingrati, quando non li filava più nessuno e loro tenevano duro con album via via sempre meno convincenti. Io dico però che si sorvola sulla percezione che la critica e il pubblico avevano della band in quel periodo, vale a dire di una via di mezzo tra Gwar e Richard Benson.
Non crediate che esageri. Se lo pensate o non eravate ancora nati o probabilmente siete vittime del revisionismo storico. Oggi Tom Angelripper è una specie di eroe di guerra ed è trattato con deferenza da qualsiasi webzine, anche quelle con l’attitudine in apparenza più scanzonata e irriverente come Metal Skunk o Metal Sucks. Il vecchio Onkel Such, è un sopravvissuto a tante battaglie che continua a mandare avanti l’armata sodomita. Dietro di sé, parafrasando il bello scrivere belligero delle ticchettanti manine webzinare, “ancora come ai vecchi tempi, non lascia scampo ai culi di nessuno”.
Capisco che questo rimando a Sodoma e ai deretani possa infastidire i fan ma non dimentichiamo che il gruppo tedesco scelse uno dei nomi più indigesti della parafernalia biblica: la città in cui il livello morale era talmente andato a male, che il dio cristiano preferì distruggerla con un assalto atomico anziché tentare qualcosa di più efficace e rottamante dal punto di vista della propaganda. Il padreterno poteva optare tipo per una bella pestilenza o una terribile carestia a base di cavallette. Ma in quel posto si facevano da tutti quanti le cose più abominevoli, tanto che persino i due angeli mandati dal Padreterno a casa dell’unico uomo probo, Lot, rischiarono un linciaggio carnale in stile Tranquillo week-end di paura.
E Tom Angelripper e il suo primo comparuccio delle origini, il dimenticato Aggressor (Frank Terstegen), scelsero di omaggiare quella città sposando in pieno il concetto di sesso anale indifferenziato e irriverenza contro dio.
In un certo senso, lasciatemelo dire, a dispetto delle due mascotte che si sono avvicendate sulle copertine dei dischi, il boia incappucciato e Knarrenheinz, il soldato bionico pieno di steroidi e chissà quali altri cocktail radioattivi, il solo artwork coerente con il nome Sodom e tutto ciò che hanno sempre voluto intendere scegliendolo, è rappresentato su Mortal Way Of Live. Dategli un’occhiata e ditemi se non è così.
Ma se insisto a parlare del nome è perché scegliendolo e assumendo un determinato atteggiamento cazzone e volgare, i Sodom, negli anni 90, diventarono la band più indifendibile e incresciosa che si potesse recensire.
Per chi non lo sapesse, io sono del 1978 e ho iniziato a sentire metal a pieno regime dal 1991. Compravo riviste e scoprivo via via le band fondamentali, quelle di moda e via così. Beh, per me i Sodom che uscivano fuori dalle rare interviste e le frequenti stroncature recensorie, erano davvero una band terribile e con i propri dischi sembrava fare in modo che sia io che il mondo lo pensassimo a ragione. Bastava guardare le copertine di Get What You Deserve o di ‘Til Death Do Us Unite.
La critica specializzata, se così vogliamo chiamare un nutrito gruppo di pennaioli pieni di idiosincrasie e attitudini fanboyste, aveva già negli anni 80 sofferto molto la presenza dei Sodom. Gli intenditori non hanno mai stravisto per loro. Pensate che anche Agent Orange, considerato persino in Italia con un certo tempismo, come scrisse Piccini su HM “il loro miglior album di sempre”, fu stroncato da Metal Hammer tedesco quando uscì.
Tom Angelripper ha sempre ribadito la sua fedeltà ai fans, fregandosene dei giornalisti e non era una cosa buttata lì tanto per fare i superiori nelle interviste. E forse, la vera spiegazione delle scelte stilistiche scriteriate dei Sodom all’inizio degli anni 90 si spiega proprio alla luce di questo.
Sembrava che preferissero alzare il dito medio contro un sistema che non li aveva mai capiti e che continuava a sopportarli con sempre maggiore sofferenza. Negli anni 90, non si dice spesso ma, l’ambiente metallaro era diventato terribilmente serioso. Tra l’influenza esistenzialista del Grunge e le difficoltà economiche di etichette e gruppi nel tirare a campare, c’era un irrigidimento e una notevole insofferenza nei confronti di chi voleva comunque mandare avanti ancora concetti di frenetico edonismo e mentalità anarcoidi. Bisognava fare sul serio ed essere sobri, tristi e depressi semmai, ma non emettere alcun peto o rutto tra un riff e l’altro.
I Sodom erano brutti, sporchi e cattivi e troppo ottusi per accorgersi di quanto questa cosa non fosse più accettabile in nessun contesto metal, anche i più spinti. Persino su Grind Zone erano visti come dei pagliacci.
Di sicuro pure nei contesti più tecnici del loro thrash primordiale, vale a dire gli anni della collaborazione con il prode Frank Blackfire, avevano mantenuto una sostanziale grana grossa, nei suoni e nella tenuta esecutiva, ma oggi nessuno penserebbe che non fossero seri in ciò che facevano. Parlavano di guerra, serial killer e satanismo retrogrado ma lo facevano con grande impegno, optando per un linguaggio diretto ma non tanto per cantà, come dicono a Roma. Pregavano ovviamente il dio Cronos e la sua attitudine irruenta e cafona nei Venom. Si ispiravano alla filosofia disincantata di Lemmy e guardavano alla violenza concentrata degli Slayer di Hell Awaits, e questo era tutto. Non avrebbero mai assimilato gli Alice In Chains!
Quindi immaginate quando, a partire dal 1992, si cominciò a pretendere, specie dai gruppi già in attività da un decennio, originalità, evoluzione, cambi di rotta audaci, quale fu la reazione dei Sodom e della critica davanti a loro.
C’è chi sostiene che Tapping The Vein guardasse al death metal floridiano e confesso che pensai proprio questo la prima volta che lo ascoltai. Ne rimasi deluso perché a me era piaciuta molto la svolta “leggera” di Better Off Dead, al contrario dei vecchi fan oltranzisti, convinti che si fossero troppo allontanati dalla pesantezza di Obsessed By Cruelty (altro disco stroncato quando uscì) e Persecution Mania. E il gruppo parve rispondere alle accuse di tradimento con un prodotto brutale e che faceva persino a gara con le nuove tendenze estreme. Ma, sebbene la voce di Angelripper suoni più cavernosa e rancida, le tematiche generali siano iper-violente e le ritmiche dell’ormai irredimibile alcolizzato Witchhunter molto spinte, sia Tom che il chitarrista che suonò e scrisse buona parte del disco, l’allora molto giovane Andy Brings, sostengono oggi di non aver mai ascoltato death metal e tantomeno di essersi ispirati a quella roba ridicola. E la prova che Tapping non fosse death è la mancanza di un’accordatura ribassata, dicono.
In ogni caso le riviste non salutarono Tapping The Vein con entusiasmo e se qualcuno avesse scritto una lettera furiosa in cui si profetizzava che nel nuovo millennio, un giorno sarebbe uscito un cofanetto deluxe dell’album invocato dai fan di tutto il mondo, i quali l’avrebbero comprato di corsa, i giornalisti si sarebbero tutti messi a ridere. E invece è così che è andata. Però il seguito della discografia dei Sodom, quello che va dall’EP Aber bitte mit Sahne! a ‘Til Death Do Us Unite attende ancora di essere riabilitato e non sembra che al momento qualcuno ne abbia la forza e gli argomenti sufficienti per riuscirci.
E non sono io qui a volervi dimostrare che i Sodom di questi lavori siano da rivalutare. Non lo sono. Avrebbero potuto stare fermi fino a Code Red e non ci saremmo persi nulla, ma provo un certo affetto per tutta la fase oscura della band e anche per questo ne scrivo.
Mi sorprende che Get What You Deserve al tempo fosse stato recensito bene da Luca Signorelli (che però simpatizzava per gli Anal Cunt e stravedeva per i Gwar) e ancor più non mi capacito di apprendere che sia proprio questo l’album preferito da Tom Angelripper. Trovo sia interessante e la dica lunga su ciò che i fan si aspettano dai Sodom e quanto ciò differisca da come in realtà, nel profondo, il loro leader invece li veda e ami di più.
Quando presentò i master di quel disco all’etichetta Steamhammer, inorridirono tutti e supplicarono i Sodom di non uscire con una cosa registrata tanto male. Ma era proprio così che Tom desiderava far sentire al mondo la band. L’album fu registrato in presa diretta, senza sovraincisioni. La chitarra che sentite è una sola e il lavoro di mixaggio e produzione di Wolfgang Stach, già artefice del precedente EP e sostituto momentaneo del solito Harris Jones, è probabilmente molto certosino, nonostante l’apparente trivialità generale.
Nel 1994 si scriveva ovunque un gran bene dei Green Day, era uscito Dookie e tutti parlavano della “rinascita del punk” facendo vomitare nella tomba Sid Vicious. Tom nel suo piccolo volle mostrare al mondo che si stavano usando parole a sproposito. La copertina di Get What You Deserve meritava da sola una cacciata dalla scuola, seduta stante. Lo stesso Signorelli ammise che se gli avessero passato l’advance tape con la cover ufficiale e non una foto di repertorio dei tre musicisti, avrebbe stroncato l’album per principio, tanto era brutta e inguardabile.
Ancora oggi è censurata ma a ben vedere raccoglie le tematiche di alcuni dei testi, in un mosaico di sublime sconcezza: un ciccione ricoperto di sangue che giace su un letto circondato di oggetti erotici. Accanto c’è una donna legata e con una maschera da sado-maso e alla TV si vede il film di Moby Dick.
Get What You Deserve parla infatti di serial killer pedofili obesi (Jabba The Hat), di atroci vendette (la title-track), di bambole gonfiabili (Die stumme Ursel) e di caccia alle balene (Tribute To Moby Dick/Silent Is Consent). La sensazione oscena e stupida dell’intero artwork è espressa inoltre dal brano su pompini ed eiaculazioni orali (Eat Me).
Non potrebbe esserci un menù tematico più eterogeneo: da una parte il disimpegno assoluto fatto di sesso estremo, volgarità becere, maschilismo bestiale e dall’altro c’è uno dei momenti più seri e socialmente sentiti dei Sodom: la sensibilizzazione sugli ammazzamenti illegali dei poveri cetacei. Il tutto suonato al volo, senza rifiniture, sporco e cruento sì, ma attenzione: il motore ritmico di Atomic Steif è potentissimo e Andy Brings sapeva il fatto suo. Tom ha sempre avuto il dono di condire di sterco divino le grosse polpette dei Sodom e anche qui garantisce una continuità catarrale sul piano dello stile. Sono i Sodom come non riuscite proprio a reggerli né correggerli; sono il metal che non vuole darsi una ripulita e un tono. Stateci, cari critici con il naso appena soffiato e le puzze strette nel culo.
Ovviamente Get What You Deserve non vendette granché, non so quanto riuscì a soddisfare il pubblico fedele, perinso i fan più convinti. Nemmeno il successivo Masquerade in Blood, per quanto fosse più “presentabile”, anche se un pochino speziato di groove metal, rilanciarono il gruppo. Inoltre, le vicende legali del nuovo chitarrista, Strahli, arrestato per spaccio di droga e morto circa quindici anni dopo di overdose, non migliorarono le cose. Atomic Steif mollò poco dopo e Tom fu costretto a riorganizzare una nuova line-up nel periodo peggiore della storia del gruppo. Inutile dirvi che ci riuscì piuttosto bene.
La cosa divertente è che, nonostante i dischi giudicati terribili, i critici sbottavano pure davanti alle uscite interlocutorie dei Sodom, come live e raccolte. Dato il periodo incasinatissimo erano prevedibili escamotage per ribadire la presenza sul mercato, ma anche lì c’era modo e modo.
I recensori non si capacitavano di cosa si stesse davvero parlando di fronte a Marooned Live o Ten Black Years – Best Of. Prendevano in giro quei terribili e imbarazzanti Sodom, così orgogliosi da pubblicare un doppio live e una doppia raccolta, come se il loro repertorio discutibile e lo scarso successo ormai lontano di un decennio prima, potesse giustificare l’acquisto oneroso di cofanetti celebrativi.
I Sodom risposero a chi li dava per morti con un altro lavoro dalla copertina tremenda, il contenuto altalenante e l’attitudine irrimediabilmente cazzona, offensiva e randomica. Passavano dal thrash classico al crossover sociale; dagli omaggi triti ai Motorhead di bassa stagione, alle cover improbabili in chiave punk (Hazy Shade of Winter di Paul Simon), fino all’appuntamento ormai fisso con le canzoni in tedesco, lingua che stava per essere resa cool dai Rammstein, ma che nei pezzi dei Sodom rendeva le cose ancora più birresche e beceramente crautali (nel senso del crauto, simbolo glorioso della cultura teutonica).
In effetti Tom ha sempre voluto cantare in originale i testi tradotti (a cazzo) in Inglese. Sin dai tempi di Bombenhagel, scritta originariamente in tedesco e poi cambiata per volere dell’etichetta, i Sodom desideravano rivolgersi al pubblico di casa facendosi capire e non storpiando una lingua che solo dopo alcuni anni di attività iniziarono a masticare decentemente. Già con Ausgebombt, cantata in deutch nel singolo) si avvicinarono progressivamente allo scopo ma dal 1992, visto che le cose andavano maluccio all’estero, non c’era motivo di trattenersi oltre e godersi un po’ di comunitarismo anthemico in patria.
E così, questa cosa cominciarono a farla con puntualità nel periodo più sfigato della loro carriera, offrendo ai detrattori un ulteriore motivo di spregio. Oggi sembra davvero una ficata sentir cantare il metal in tedesco, ma ricordo che negli anni 90 dava fastidio anche solo l’accento pesante di alcuni cantanti del Nord-Europa, figurarsi ascoltarli blaterare in lingua madre.
I Sodom lo fecero sempre di più e in modo ridanciano, irriverente. Brani come la cover del vecchio successo pop di casa Aber bitte mit Sahne! del cantante Udo Jürgens (una specie di Toto Cutugno teutonico) o la volgarissima e baritonale Verrecke!, suonavano indigeribili al pubblico ancora molto filo-anglofono degli anni 90 mentre oggi sono accolte con un sorriso. Addirittura so che il gruppo nei live ha una sessione medley di quei pezzi in lingua originale. In Germania però immagino risultassero già a metà anni 90, divertenti e da strillare tutti insieme con una birrona in mano e un crauto appena sfornato nell’altra.
Poi uscì Code Red e partì la riabilitazione che ha condotto i Sodom, oggi, a essere istituzionali e rispettati anche da chi non ha mai amato particolarmente il thrash, specie quello tedesco. Un mio amico un pomeriggio del 1999 me ne accennò mentre prendevamo un caffè in un bar. Disse: “hai sentito l’ultimo album dei Sodom? Cavolo, è pesantissimo!”. Non so perché ma la cosa mi suscitò un certo interesse. Non realizzai che qualcosa stesse cambiando e che presto nessuno avrebbe più detto che i Sodom erano dei buffoni inutili, ma cominciai a pensare che forse quella band, se lo voleva, poteva non essere solo una barzelletta. E infatti oggi nessuno ride più davanti a una maxi raccolta tripla o quadrupla che racchiude 40 anni di disonorata carriera. Va bene il blablante “Respect!” per Tom Angelripper, certo, ma ricordiamoci un po’ meglio di quando era considerato un fellone imbarazzante da silurare senza pietà negli anni 90; specie da chi oggi ne parla benissimo e dedica ai Sodom pure delle certosine monografie.