Chiamiamole pure coincidenze, scomodiamo il karma o qualsiasi entità politeista e monoteista presente nei secoli, ma il tempismo con cui il disco dei Ghost si è materializzato fra i nostri metadati ha un che di soprannaturale, hai voglia a farci dell’ironia. Ma d’altronde Alice Cooper, un altro che nelle ultimissime ore è tornato di attualità, ci insegna da sempre che sbeffeggiare ciò che fa orrore è un esercizio consigliato per campare a lungo, a dispetto di quanto ci insegnano le anime candide.
In concomitanza con la scomparsa del santo padre, dovremo celebrare la fine, simbolica, di un altro Papa, quello Emerito, o come diamine si chiama adesso. Magari potremmo sperare che dal prossimo Conclave esca, oltre che un nuovo papa, una band rinvigorita nelle intenzioni.
Ho avuto la fortuna di conoscere i Ghost al Wacken 2011: quell’anno suonarono sotto un tendone inzuppato di fango, pioggia e cattive intenzioni a chiusura del festival e non tiro fuori l’aneddoto per manifestare una presunta e inesistente superiorità di chi è arrivato prima. Quella era proprio un’altra band.
Oggi i Ghost girano con una produzione di altissimo livello, imballano le arene, giocano con l’immagine che si sono costruiti con grande talento e intelligenza.
Senza girarci attorno, la formula coniata con Prequelle esaurisce con l’uscita di Skeletà (piccolo inciso: ho da sempre un problema con i titoli dei loro dischi, li confondo sistematicamente, vai a capire perché…) la sua spinta propulsiva e intendiamoci, non c’è nulla di sbagliato nell’hard melodico su cui Tobias Forge si è fossilizzato ormai da anni.
E’ chiaro come il cerone che il nostro svedesotto punti a consolidare il mercato US, oltre a raccattare qualche spicciolo in terra madre dove ormai ci si nutre di salmone, polpette dell’Ikea e hard rock.
Perché è vero, questo è il secolo del Rap, della Trap, di SAP e di svapo, ma l’America è un posto grande in cui le nicchie di mercato sono in realtà distese popolate da migliaia, se non milioni di persone. Un po’ come le riserve dei nativi, e mi si perdoni il paragone. Tutti i reduci in piazza di AOR, Sunset Strip e compagnia cantante muovono ancora un giro d’affari mica da ridere fra crociere, Rocklahoma, raduni, residencies e festival vari. Dopotutto parliamo di un pubblico che è senz’altro fra quelli più alto-spendenti, per cui il business plan di Tobias Forge è bello che fatto.
Dai non fate quelle facce. Lo so, anche voi come me vi siete girati in testa un sacco di film ascoltando Year Zero e Monstrance Clock, pensando che i Ghost fossero un manipolo di invasati alla maniera dei The Devil’s Blood e che praticassero la magia nera.
Tobias Forge ha “forgiato” (mi si scusi il gioco di parole) la più grande metal band da stadio degli ultimi tre lustri, un arco di tempo che in altri anni avrebbe trascinato la band nel girone dei sopravvissuti, mentre in epoca digitale siamo ancora qui a parlare di nuove leve. Scherzi dello spaziotempo.
Insomma, il disco farà la felicità dei boomer che ormai rappresentano il suo pubblico. Se chiudi gli occhi sulle note di Peacefield ti sembrerà di ascoltare i Journey festeggiare a Sausalito il 31 di ottobre. Satanized, prima anticipazione dell’opera, è il brano più compiuto, quello che regala gaudium magnum da tutte le angolazioni pur non discostandosi dalle caratteristiche di brano hard melodico.
Tutti i pezzi hanno un breve lampo che fa sperare, che illude su un ritorno a tonalità vagamente sinistre come quelle dei primi dischi. Questi sprazzi solitamente non superano mai quel momento (mai più lungo di un minuto) in cui si trasformano in torch song (Guiding Lights) o in qualcosa di più stucchevole.
Il caso di specie più eclatante è quello di De Profundis Borealis: parte come un notturno di Chopin, si trasforma in un ibrido fra l’hard e un musical per concludersi sulle note di Somewhere In Time.
Al nostro frontman però il travestimento riesce bene, su quelle melodie lui spazia che è una bellezza, sembra che le abbia nel sangue anche se non brillano quasi mai per originalità. Le citazioni poi si sprecano, Def Leppard, Queen, Black Sabbath, le orecchie più attente inizieranno a sanguinare dopo essersi divertite sulle prime.
Sarebbe ingeneroso definirlo spreco di talento e di risorse, ma come dicevamo all’inizio la formula di “Skeletà” lambisce a più riprese i confini del pacchiano. Sentire Forge gridare “Exceeeel” sul finire del disco fa accapponare la pelle; ok che il metallaro oggi è un nerd fatto e finito, ma qui si va oltre.
Da un punto di vista strumentale la band è una goduria e non da adesso: Tobias Forge ha avuto quella intuizione figlia dei tempi per cui dare in outsourcing un ramo d’azienda ha sempre le sue ragioni e nel caso specifico, non sono solo quelle economiche.
Vuoi mettere il valore di un turnover fatto bene fra i Nameless Ghouls, che oltre a costare poco, suonano da dio e non vantano pretese contrattuali derivanti da diritti d’immagine?
Tobias Forge sarà anche nato nella patria della socialdemocrazia, ma non si è fatto scrupoli con quei poveri musicisti che nel 2017 lo hanno pubblicamente accusato per mancata retribuzione e trattamenti non adeguati.
Sfido comunque a trovare musicisti più preparati di questi sulla piazza. Le incursioni strumentali di Prequelle restano fra le cose più pregevoli ascoltate negli ultimi anni, a mio parere. Pagare il lavoro e riconoscere il talento è un atto dovuto, oltre che un gesto cristiano.
Per noi fedeli, da qualsiasi angolazione la si guardi, sono giorni di lutto nazionale. Attendiamo a questo punto la resurrezione. Poi magari il disco cresce e allora a quel punto ce ne torniamo nella stalla, ma per ora preferiamo mantenere un religioso, rispettoso silenzio.