Nella cantina di Paolo Zeder

La particolarità di questi terreni sui quali sorgevano tutti gli oracoli dei morti è quella di vivere un non tempo, una non stagione, una non crescita, una non morte, idealmente un tempo zero. Permettendo il ritorno dall’aldilà, il ritorno dalla morte. – Professor Chesi – Paul Stacy

Quando guardo un vecchio horror italiano, di quelli girati dal 1970 fino alla seconda metà degli anni 80, resto impressionato più dalle location che dalla trama o le azioni che i personaggi compiono. Per esempio mi ritrovo a fissare dei vecchi cartelloni pubblicitari in strada o le vetrine di negozietti che ormai di sicuro non esistono più. Sovente, anche nelle scene più truci e misteriose, mi fisso su dei particolari che stanno lì solo perché apparentemente non inficiano la scena che si sta girando in quel momento ma che a me parlano, raccontano cose che possono far parte della storia oppure suggerirmene altre.

Parlo di 1970-1985 perché prima di questo segmento temporale ancora si usavano molto gli studi di posa e in quelli, i particolari oggetti di un ambiente, per quanto possano essere realistici, sono comunque finti e in pieno controllo di uno scenografo e di un regista.

Dal 1970 non è che i film siano stati girati tutti in strada, nelle case e nelle ville “vere”, però il cinema è diventato molto più realistico, anche quello popolare. Non oso sbirciare dopo la metà del decennio successivo perché di seguito al 1986, non so cosa ne pensiate voi, ma per me il cinema di genere italiano, salvo rarissime eccezioni, è diventato sempre più povero e sfigato, fino a estinguersi sboccando sangue sul marciapiede degli anni 90.

Ma qui si parla di Zeder, 1983, uno degli ultimi schioppi solitari di un autore che ha sempre agito fuori dal giro, per proprio conto, costruendosi una carriera senza potersi aggrappare ad alcun espediente familistico. Di famiglia con Avati si parla perché i “fratelli” sono sempre stati inseparabili e via via Pupi ha aggiunto altri parenti sul set, ma questo è un altro discorso; prova che, per quanto si cominci senza legami parentali, nel Cinema, in Italia si finisce per rimediare sempre in quella direzione, come in qualsiasi altra bottega commerciale.

Zeder esce nel 1983. Nei quindici anni precedenti, gli Avati si erano dedicati a un cinema molto strano, fatto di film misteriosi (Balsamus, Thomas… gli indemoniati) dalle tematiche strampalate (Bordella, La Mazurka del Barone… Tutti defunti tranne i morti viventi) più alcuni viaggi delicati e poetici nel sogno e nel fantasmatico (Le strelle nel fosso e Aiutami a sognare). Tra tutti questi titoli c’è un solo horror ma decisivo e che tutti voi conoscerete bene: La casa dalle finestre che ridono.

Nonostante il successo di questo film, Antonio e Pupi scapparono subito dai confini del genere vero, per paura di finirvi intrappolati, salvo farvi ritorno proprio nel 1983. A quanto ne so Zeder andò bene con gli incassi, ma nello stesso anno, Pupi girò il bellissimo Una gita scolastica, guadagnando da lì una via molto fertile, per lui nello specifico, vale a dire la commedia salata e un po’ biografica per cui è oggi conosciuto dalle signore abbonate di Rai 1.

Negli ultimi decenni c’è stata una riscoperta dell’Avati horror, la definizione di Gotico Padano e una miriade di saggi e approfondimenti su questo segmento dell’intera opera, non considerando quanto sia intersecata al resto dei film che Pupi ha girato, anche i più leggeri e sentimentali. Fa tutto parte dello stesso passato, le leggende, gli amori, i drammi personali, le canagliate ciniche intorno ai regali di natale e così via.

CAPITOLO 2 – SI SCENDE IN CANTINA

Ci sono un paio di scene in Zeder che mi interessano per il discorso che voglio fare. La prima è nel preambolo e la seconda è l’incontro del protagonista, Stefano (Gabriele Lavia) con la sorella cieca dello spretato.
Faccio conto che sappiate già la trama e che quindi non vi debba spiegare tutto di chi è chi e cosa combini.

Nel prologo c’è un uomo, chiamato Dottor Meyer, studioso accademico in fissa con l’opera esoterica di un certo Paolo Zeder (l’apolide scopritore dei terreni K) e una ragazzina in vestaglia che potrà avere dodici anni.

Lui la conduce contro la sua volontà in una cantina, lungo diverse rampe di scale e porte. Lì sotto c’è qualcosa di molto pericoloso, lo spettatore lo comprende da una serie di indizi che Avati dispone prima e durante il tragitto della strana coppia nelle profondità della casa.

Mentre i due scendono io mi soffermo sugli oggetti sparsi in giro e che per l’andazzo della cinepresa non sembrano importanti per il racconto. In quelle stanze sotterranee, all’apparenza comuni e freschi tinelli che si possono trovare in vecchie case della metà del secolo scorso, ci sono mobili e strumenti abbandonati a marcire, come in ogni tinello e cantina o soffitte. Si vedono ceste con dentro ferri e utensili arrugginiti; il solito arredo che si forma in quei posti della casa non pensati per ricevere visite ma per metter via ciò che in realtà si dovrebbe buttare una volta per tutte.

Lì sotto, nonostante l’abitazione sia piena di rumori, di corrimano che tremino e di pavimenti che si gonfiano, attraversati da una strana e minacciosa energia, in questi depositi, nei mesi o anni precedenti, qualcuno è sceso in cantina, il luogo più pericoloso di tutti, e vi ha lasciato delle cose che non servivano di sopra. Questo a me racconta di una vita banale, rassicurante, nello stesso posto in cui un morto risorge e spolpa la gamba di una ragazzina di dodici anni.

Ovvio che Avati non si sia messo a spostare ogni oggetto trovato in quella “vera” cantina dove ha scelto di girare la scena, così come non ha assolutamente cambiato una virgola alla Colonia di Spina (nella realtà a Milano Marittima), in cui si vedono cerbiatti disegnati sui muri, scene buffe di animaletti disneyani che fanno da sfondo all’incontro terribile, nel finale e all’agghiacciante inquadratura del Costa mentre scende le scale e guarda nella nostra direzione, come se stesse per venire a prendere tutti noi.

Quegli animaletti sui muri sembrano risalire a un periodo successivo al regime fascista e all’occupazione tedesca, vale a dire quando si tentò per breve tempo, di rilanciare la colonia. I Bambi e le croci naziste sono entrambi ancora lì, murales che segnano le varie stagioni, di vita e di morte, avvicendatesi in quel posto molto speciale.

Ho pensato che quegli oggetti, tornando nella cantina di Zeder, probabilmente, raccontano solo di operai, uomini di fatica, incaricati da vecchiette di portar giù delle cose e tornare su a bersi un bel tea ghiacciato, non di avventurosi faccendieri spintisi per ragioni alimentari fino alle soglie infernali di casa Zeder. Vale a dire persone e azioni che non appartengono a quello che gli studiosi di cinema chiamerebbero universo diegetico del film.

Eppure sono proprio quegli oggetti casuali, ordinari, in un posto tanto straordinario e pauroso, a donare al film quell’aspetto profondo, multidimensionale che lo rende davvero credibile, almeno per me. E allora mi gingillo in pensieri su quei faccendieri, mentre guardo per la ventesima volta il dottor Meyer che percorre febbrile e claudicante i corridoi sotterranei della cantina, con in braccio la povera bimba sensitiva. Chissà se costoro, gli operai, i servi, i faccendieri, tornando indietro da quel posto così aggressivo, abbiano avvertito un soffio gelido lungo il collo umido di sudore?

Ci sono persone che possono verniciare i cancelli di Dracula, senza pensarci troppo, se qualcuno li paga per farlo. Ce ne sono altri che solo a mettere piede in Transilvania, si lasciano percorrere da tremende suggestioni che li raggiungono dal cuore dei millenni. E pensare che proprio nelle tante rivisitazioni del romanzo di Stoker, sono i contadini, gli umili, a temere più di tutti il castello, a credere incondizionatamente alle leggende che lo percorrono dopo secoli, mentre giovani aitanti e razionalissimi galoppini di agenzie immobiliari non hanno neanche il tempo di riderne, presi come sono dai propri affari. Non ho mai capito quale sia la realtà, in merito a questa situazione.

Io avevo una cantina e da piccolo a volte ero incaricato di andarvi a prendere delle cose. Beh, ricordo che la parte difficile non era quando si scendeva. Certo, accendevo la luce e guardavo verso l’ultima anta in fondo, delimitata da un arco sul soffitto oltre il quale l’illuminazione non arrivava. Mentre prendevo la bottiglia di conserva, badavo a quel buio da cui poteva uscir fuori qualsiasi cosa il mio cervellino partorisse in quel momento. La parte difficile però era la risalita, quando mi dovevo voltare e correre su per le scale.

A quel punto dovevo tener duro perché “la cosa nel buio” probabilmente mi avrebbe inseguito. E nel momento in cui avessi spinto l’interruttore accanto al portoncino, restituendo al nero anche il resto della cantina, avrei potuto sentire una mano fredda e secca agguantarmi il braccio e tentare di trascinarmi giù con essa, in mezzo alle conserve.

Mia madre avrebbe trovato la bottiglia di pomodoro rotta in fondo alle scale insieme al sangue del suo bambino.

Scendendo nella cantina di Zeder assieme al dottor Meyer e la ragazzina, ho pensato cosa avrebbe potuto significare per me, piccolino affrontare una cantina con così tanti vani, nella mia infanzia. Vedendo quella bambina lasciata lì sotto in balia di un morto vivente, probabilmente ho accusato un effetto più profondo di altri spettatori.

CAPITOLO 2 – IL CIECO CHE PARLA NELL’OMBRA

La seconda scena, quella dell’incontro di Stefano con la sorella del Costa, mostra esattamente la speciale capacità di Avati nel trasformare il reale di tutti i giorni, nei contesti più rassicuranti, in qualcosa di tremendo.

Stefano e la compagna vanno in spiaggia a Rimini. Lui la porta al mare non perché voglia farsi un bagno con lei e trascorrere una giornata serena. Lì c’è la casa dove ha abitato il misterioso ex prete Luigi Costa, a pochi passi
dalla spiaggia, a cui ha intenzione di avvicinarsi, magari entrarci e scavare ancora di più in una vicenda che si sta rivelando decisamente minacciosa.

Stefano attraversa un cancello aperto con su la scritta “affittasi stanza” e un numero di un’agenzia. Bussa al portoncino. Il cortile è tenuto in ombra da grossi pini marittimi e una volta lì, la musica, il sole e l’allegria delle radioline anni 80, sono un lontano ricordo. Di colpo ho paura.

Stefano trova la porta aperta e sale le scale. Una brusca voce femminile dopo un po’ gli intima di andarsene. Lui però non ubbidisce. Seguendo il suono della voce, si spinge avanti, in una stanza semi-buia, ma con abbastanza luce da scorgere i mobili coperti di lenzuola.

Sembra tutto abbandonato ma allora chi ha parlato?

Dal fondo della stanza, la poca luce che entra dalle persiane chiuse, illumina due gambe. La donna è lì, sul divano. La voce è poco amichevole e insiste: Stefano, chiunque sia e qualsiasi cosa cerchi, deve andarsene subito.

Lui si scusa e promette di farlo, ma prima domanda informazioni sull’uomo che viveva in quel posto, don Luigi Costa.

La donna dice di essere la sorella e dato che l’uomo sembra essere stato un parrocchiano venuto a chiedere di lui, nonostante la voce brusca, gli suggerisce una cosa strana: prendere una chiave in un bacile di porcellana sulla madia e salire di sopra per visitare la camera del fratello, rimasta chiusa da più di un anno e mezzo, vale a dire da quando lui è stato ricoverato in una casa di cura, dove “l’hanno ridotto peggio di come era”.

Prima di andare però, la donna si avvicina, rivelandosi una non vedente. Ecco che allora capisco, il suo tono era ostile perché lei, povera vecchia non vedente, si è sentita minacciata. Era lui, il giovane intruso, la minaccia. Eppure è da Stefano e il suo volto teso che ho riconosciuto la mia stessa angoscia. Le gambe che spuntano dal fondo della stanza, la voce schietta, mi hanno fatto pensare a un essere non ordinario e potenzialmente pericoloso per Stefano e per me.

C’è qualcosa nella figura dei ciechi, senza occhiali scuri, con le pupille bianche in vista, di molto inquietante, che il cinema horror e thriller italiano, negli anni 70 e 80 ha insistito a farci misurare e che in Zeder rappresenta un tardivo ritorno. Ciechi così come i preti, figure generalmente considerate innocue e che invece nel cinema di genere si possono rivelare pericolose o magari, come nel cinema di Fulci e in quello di Avati, traghettatori o custodi verso altri mondi.

Solo Pupi ha insistito sugli zoppi, come strumento possibile di perturbazione freudiana. Vedere la donna misteriosa di spalle, che cammina emettendo quel suono sordo e regolare della gamba di legno in terra, è inquietante, nonostante sia poi esso un indizio decisivo per farci comprendere che quella signora austera e un po’ triste, è Gabriella Goodman, l’ex bambina della cantina, sopravvissuta e ancora in combutta con il dottor Meyer.

Ma torniamo a Stefano in casa di Don Luigi Costa. Lui sale le scale e ciò che mi ha colpito non è stato tanto quel che trova nella camera chiusa., che per giunta, nonostante lo sia stata da un anno e mezzo, vi riscontra un gran trambusto prodotto di recente. Qualcuno che ancora una volta arriva prima di lui.

La porta finestra che dà sul balcone è infatti aperta e l’interno della stanza è tutto sotto-sopra. Ci sono fogli dappertutto e nel casino Stefano trova una medaglietta. La riconosce lui così come noi: sappiamo chi ha fatto quel putiferio, accrescendo la sensazione di una congiura intorno al protagonista e la presenza di nemici in chi proprio non ti aspetteresti.

Anche qui però a comunicarmi qualcosa di speciale non è la camera in sé, a dire il vero fin troppo ordinaria, ma il tragitto lungo le scale semi-buie che lui percorre per raggiungerla. Due rampe dove si scorgono quadri alle pareti, vasi di fiori, molti segni di una vita normale e stridente con quel luogo. Difficile immaginare che dentro quella casa, tra una donna cieca che vive sola (e che ha una sinistra somiglianza con Donald Trump), nel dolore e nella rabbia, e un prete che via via ha perso la fede, la salute e la ragione (e quasi tutti i denti) qualcuno abbia pensato a queste piccole cose, come mettere un vaso a metà scale, o a dove sistemare quei quadri con le scenette campestri, per vivacizzare i muri del disimpegno. E ciò che mi ha suscitato dentro, mentre guardavo, non è solo paura, ma anche pena. Ecco l’ingrediente segreto del terrore, almeno per me: il dolore empatico verso la sofferenza di qualcuno.

C’è qualcosa di profondamente doloroso in Zeder, come in tutti quei film che mi spaventano sul serio: un trascorso umano di sofferenza ingiusta e di solitudine, miseria, sfortuna.

In particolare, lo sprofondo della malinconia e dell’abisso spaventoso è, non è la cantina o la casa di Don Costa, ma il luogo che è cuore assoluto e punto di scontro decisivo nella vicenda: la Colonia di Spina.

CAPITOLO 3 – LA COLONIA SOSPESA E LA RISATA DI DON LUIGI

Avati ha detto che lì lui vi ha visto la morte. Non si sa bene cosa intenda. Non credo voglia dire che una figura vestita di scuro l’abbia salutato da quella strana dentiera architettonica che fa pensare al ventre scheletrico di un grosso pesce, come suggerisce Roberto Curti nel suo bel saggio sul Gotico Italiano uscito per Lindau. Probabilmente è una frase un po’ poetica, quella di Pupi, sulla morte nella colonia. Bisognerebbe scavarci dentro tanto per chiarirla, senza riuscirvi completamente.

La Colonia mormora ancora di anni lontani, in cui gli uomini di un regime ormai caduto, la costruì. Uomini potenti, ispirati da idee su orgoglio patrio e sferzante sguardo verso un futuro da dominatori superomistici.

Quei ragazzini che andarono lì per l’estate, pochi anni prima che, a causa dello scoppio della Guerra, la colonia venisse chiusa, devono aver seminato uno strascico emotivo e onirico, dentro le mura di quell’edificio, così imponente e vorace da comunicarlo anche attraverso un vecchio film horror degli anni 80. I disegni sui muri sono ancora lì, sulla pelle di cemento del cadavere in putrefazione di un mondo che i governi italiani hanno preferito lasciar morire lentamente.

E lì, mentre le erbacce e la malora si mangiano la colonia, nel 1983, un gruppo di individui, nell’universo di Zeder, tenta un esperimento segreto in cui sono coinvolti uomini di chiesa e di potere.

Nel film si spiega che la colonia sembra essere stata costruita inavvertitamente su un terreno K. Nella prima parte del film, il professor Chesi, interpellato da Stefano, spiega che questi luoghi si trovano dove gli antichi posizionavano templi dedicati agli oracoli e agli dei.

Il contrasto tra antico e moderno qui è palese: l’uomo di oggi (1983) così tecnologico e pronto a dare una rassicurante spiegazione scientifica a tutto, sprezza quel passato classico dominato da gente fuori di testa che faceva sacrifici umani. Avati però sembra dire che almeno certe cose metafisiche i greci e gli etruschi le gestivano con un certo criterio e un terreno K, viatico tra questo e l’altro mondo, non era lottizzato da politici selvaggi per un’impresa architettonico-pedagogica imbarazzante.

Nella colonia si sente uno sghignazzo malvagio. Il movimento ilare è attribuito a un uomo senza più denti: Don Luigi lo spretato. Dalle sopracciglia foltissime, l’aria del defunto campagnolo di provincia, un po’ commedia all’Italiana. Se la ride incontinente mentre insegue, per sbranarli vivi, i personaggi che si avventurano nel suo raggio d’azione della non vita.

Ride di tutti quanti, il Costa: i ricercatori con i loro computer e i registratori, parapsicologi esoterici che congiurano intorno al nulla. Ride dei potenti naneschi, dalle manine delicate e lo sguardo vorace, vogliosi di sapere per primi e subito nascondere. Ride di tutti coloro che prima l’hanno trattato come un pazzo e che ora studiano il suo cadavere per vedere se quello che lui credeva vero, sia possibile o no.

Ride anche di Stefano, invischiato in una faccenda più grande di lui solo perché è uno scrittore in crisi e ha disperatamente bisogno di una cosa interessante da raccontare per vivere la sua piccina vita di romanziere frustrato. Desidera così tanto una storia da pubblicare che finisce per rimetterci la vita tranquilla e la dolce presenza femminile che lo ama tanto.

Alessandra, interpretata dall’attrice francese Anne Canovas,  è l’ancella che mette l’irresistibile mistero davanti alla bocca affamata del narratore. La macchina da scrivere è l’esca irresistibile a cui lui abbocca, finendo nel ventre della Balena colonica con tutto il proprio piccolo, apparentemente gradevole e rassicurante mondo perduto.

La risata di Costa è rivolta anche a noi e per questo ci spaventa tanto. Lui se la ride delle nostre misere paure, dall’alto della sua immortalità su cui ha scommesso tutto.

La risata di Costa, così sputacchiosa, da vecchietta, andrebbe indagata a lungo nel tentativo di tirarne fuori ogni senso. Sempre il Curti nel suo saggio suggerisce che forse il morto, in bilico tra i due mondi, sappia cose dell’al di là, capaci di rendere assurdamente comici gli atteggiamenti dei vivi all’oscuro dai segreti dell’altro mondo.

Di preciso non si sa, ma ho l’impressione che quel suo ridere sia rivolto anche ai fratelli Avati. Probabilmente per loro è solo un espediente spaventoso, come i passi in avvicinamento o le telefonate anonime, ma di sicuro si annida nella propria infanzia, con l’ammonimento degli zii di star buoni, altrimenti “la nonna defunta torna a tirarvi per i piedi”. Pupi e Antonio hanno sempre avuto paura di quella risatina chioccia che gli pareva di sentire nel dormiveglia inquieto.

Come ha scritto qualcuno in un commento alla pagina facebook la risatella Don Luigi Costa lo spretato, ricorda più quella di una nonnina, non di un uomo grande e grosso. E quell’utente ha ammesso che la risatina è molto simile a quella della sua, di nonna, concludendo il commento con l’informazione che lei “non era una persona buona”.

CAPITOLO 4 – LA MORTE E GLI ANIMALI

Anche in Zeder ci sono animali sepolti che tornano in vita. Nel romanzo di King succede a un gatto, ma dalle parole del vecchio Jud Crandall (Fred Gwynne), apprendiamo che in precedenza lui da ragazzino, nel cimitero dei Micmac vi aveva seppellito il proprio cane.

Anche nel caso dei villani della città di Spina, si racconta di un cane. Ce lo dice il vecchio Benni – figura un po’ comica e un po’ patetica di beone che al paese tutti prendono poco sul serio, pur nutrendo per lui affezione.

Il Benni, sollecitato da Stefano racconta quanto segue:

Fino a otto anni fa, quando vennero i nudisti. Quei porci che non sono altro, che vanno tutti nudi a prendere il sole. Avevano un cane che gli muore.
Che cosa fanno? Lo seppelliscono là sotto, e poi se ne vanno. Ogni notte chi passava di lì rischiava la pelle. Hanno trovato la povera Luisa con la gola spaccata in due. Così una mattina, siamo andati là dentro con le nostre carabine, io e sei o sette colleghi, c’era uno di quei capelloni che ci ha detto dove avevano seppellito quella bestiaccia, l’abbiamo tirata fuori. Era due metri sotto terra. Aveva piantata nella schiena, le forbici che usava la vecchia Luisa, per tagliare la cicoria. Capito, l’abbiam tirato fuori di lì che era morto da almeno due mesi ma non era ancora putrefatto. L’abbiamo buttato in una fossa di rifiuti così tutto è finito. Ecco perché dico che quei francesi che voglion fare quell’albergo, sono dei pazzi.

In quel vecchio non c’è alcuna renitenza. Racconta la vicenda tranquillamente, sapendo di non essere creduto e vivendo il peso di quell’esperienza con l’attitudine contadina che Avati ci ha raccontato tante altre volte (vedi il Coppola di Cavina in La casa dalle finestre che ridono): la disponibilità ad accettare l’inspiegabile perché non si dipende così tanto dalla ragione, in campagna.

Dagli animali nascono le idee da cui scaturiscono Zeder e Cimitero Vivente. Per King è il gatto della figlia, Smucky. Nel caso di Avati, tutto parte da una macchina da scrivere usata, ma anche da una leggenda contadina che Pupi e il fratello Antonio sentivano raccontare da piccoli: la storia di un cane sepolto in una certa zona paludosa e visto poi di nuovo in giro con la bocca piena di terra e sangue.

Le somiglianze tra Zeder e Pet Sematary non finiscono qui e a vedere i due film si arriva a pensare a un plagio, ma da parte di chi?

Di nessuno.

Cimitero vivente di Mary Lambert è del 1987 e il libro di King risale al 1983, come Zeder che uscì in USA col titolo Revenge Of The Dead o Zeder: Voices From Beyond, nel 1984. In Italia il romanzo uscì nel 1985 e nessuno degli sceneggiatori, incluso Costanzo, probabilmente lo lesse.

Avati girò il film l’estate prima dell’uscita, nel 1982. Una stesura del romanzo King risale addirittura al 1979; quindi lasciamo andare, già la cronologia scagiona tutti quanti.

La versione americana del film… piuttosto exploitation

Come suggerisce sempre Roberto Curti nel saggio sul gotico nostrano, accettiamo la fatalità di tante somiglianze tra le due opere e tagliamo la testa al povero toro riconducendo l’idea di partenza a W.W. Jacobs e il suo celebre classico La zampa di scimmia, racconto che potete trovare nell’imprescindibile antologia Il libro delle storie di fantasmi di Roald Dahl.

Bisogna comunque constatare anche le differenze tra Zeder e Pet Sematary: lo stesso spunto subisce interessanti variazione date dai contesti culturali molto diversi in cui sono stati resi il romanzo e i due film.

La base di partenza è l’incapacità di accettare la morte e il sogno folle di superarla, ingannarla, raggirarla. L’aspetto morale del racconto porta i protagonisti a pagarla cara, ma non solo per il desiderio di immortalità in sé. King per esempio riconduce la tragedia al senso di colpa americano per il massacro umano e culturale dei Pellerossa: il cimitero dei Micmac, luogo sacro è violato dai bianchi, bramosi di avere la vita eterna e incapaci di accettare le leggi della natura e rispettarle, diventa un boomerang.

Avati inventa lo sfondo storico dei Terreni K da certe oscure teorie esoteriche, mescolandole con miti e usi dei Greci antichi, la cultura mortifera degli Etruschi e in gran parte, come fa notare il critico Domenico Cammarota nel saggio Storia del cinema dell’orrore 3, pubblicato molti anni fa da Fanucci, dalle zone orgoniche ipotizzate dallo psichiatra Wilhelm Reich, soppiantate nei secoli di leggende contadine. Pupi e Antonio vivono però serenamente il confronto tra misticismo antico e modernità infelice. Non ci sono genocidi alla base della cultura da cui è nata l’Italia ma un problematico passato più recente e che torna a perseguitarci: il Fascismo.

Inoltre, come suggerisce Curti, “In Zeder, la conquista scientifica del ritorno dall’aldilà, a cui si affannano preti, spretati, storici delle religioni e alti diplomatici, si ricollega alle radici cattoliche del regista”.

Pet Sematary King lo scrisse dopo una riflessione sul dover dire, prima o poi, ai propri figli che cos’è la morte. Fare quel discorso è uno dei momenti più difficili di un genitore. Io stesso, da papà, annaspai quando mi trovai a rassicurare le mie bimbe che sì, si muore ma poi… forse non…

Me la sono cavata bene con lo spiegare il sesso tra genitori, ma ho dovuto arrendermi, pur usando immagini, libri appositamente pensati e propedeutici al grande discorso, che tutti noi, comprese loro, le mie piccoline, dobbiamo morire un giorno e magari non rivederci mai più.

Inoltre, non essendo cristiano e avendo deciso di non educare la mia prole a un qualche sistema religioso, ho dovuto dire la verità senza appellarmi a nessuna favoletta sull’eternità. Il papà di Cimitero Vivente fa trovare il gatto vivo al ritorno dei figli. La sua famiglia è via, è rimasto solo lui a casa, insieme al gatto. E il gatto è morto, investito da un camion. Al telefono, quando la bimba gli domanda come stia Church (diminutivo di Churchill, così si chiama l’animale) lui esita, sa già che è stecchito ma preferisce ancora non dirle nulla. Risponde evasivamente: “è un po’ che non lo vedo in giro. Sai come sono i gatti maschi, spariscono e poi tornano…”

La morte del gatto sarebbe stato l’episodio giusto per far sì che il dottor Creed, quindi uomo di scienza, introduca la figlia al concetto di morte. Avrebbe potuto farlo sfruttando il vecchio cimitero degli animali dietro casa e appoggiandosi alla ritualità funeraria stabilita da millenni, con le convenzioni sul separarsi e salutarsi, la sepoltura, la manciata di terra, i fiori e il resto.

Ma lui preferisce usare la magia del cimitero Micmac e resuscitare il micio. Pet Sematary è tutto qui, la violazione di questo dovere dettato dall’amore e il bisogno di proteggere i propri figli dalla realtà che conduce alla catastrofe per tutti.

Pupi non era minimamente collegato a questioni paterne quando scrisse Zeder. Aveva due figli e una moglie, ma preferì usare per protagonisti due giovani senza bimbi, lontanissimi dal suo vissuto.

Stefano rimanda alla classica figura dello scrittore in crisi creativa, assorbito da un caso misterioso da cui ricavare lo spunto per un romanzo straordinario e (finalmente) di successo. Le somiglianze con King qui fanno pensare più al Jack Torrence di Shining (quello del romanzo, però) primo di una galleria di scrittori affetti da dipendenze e blocco creativo. Lavia non ha problemi di alcol (ce li aveva in Profondo Rosso di Argento, qualche anno prima) ma la motivazione che lo mette in pericolo è la stessa del custode dell’Overlook Hotel: scrivere un fottuto libro.

Se poi confrontiamo ancora il privato di Pupi e di King in relazione a Zeder e Pet Sematary, dobbiamo davvero arrenderci: il primo non aveva dipendenze dannose, a parte quella di far film, mentre lo scrittore era pieno di droghe fino ai capelli, negli anni 80.

CAPITOLO 5 – LA MALEDIZIONE DELLA SCRITTURA

Il nome Stefano, ricorre spesso nei film gotici di Avati: il protagonista de La casa dalle finestre che ridono e il personaggio principale della serie televisiva Voci Notturne si chiamano Stefano; mentre in L’arcano incantatore è l’attore a chiamarsi Stefano (Dionisi), nella realtà.

Stefano significa incoronato. Se però ci colleghiamo a Santo Stefano, protomartire, la corona è intesa come quella del martirio, quindi una roba poco allegra.

Tornando allo Stefano de La casa dalle…  è anche lui, come lo Stefano di Zeder, un artista frustrato che segue una pista sanguinaria intorno alle opere di un vecchio pittore di grande talento, morto suicida e pazzo. La donna che gli si affianca, la maestrina, non lo contrasta mai, è dolce e affettuosa; ma anche qui, l’irresistibile bisogno che l’uomo ha di conoscere la verità, costa la vita a lui e a lei.

Ma è l’arte a causare il grosso guaio.

La critica ha scritto parecchio su questa cosa. Già Domenico Cammarota parla di “maledizione della scrittura” per Stefano in Zeder: tutto parte da quella. Curti approfondisce la questioni, richiamandosi anche alla teoria di Robert Kiely sul romanzo gotico, “in cui l’artista è raffigurato come il distruttore, l’esecutore e il custode mentre il processo creativo è il lavoro del diavolo”. L’arte aggiunge Roberto, “è il luogo simbolico elettivo per contenere il mistero. Gli artisti in La casa e in Zeder specialmente, possiedono una sensibilità abnorme per il macabro e il sovrannaturale. Questo li conduce alla rovina”.

In Zeder ci sono scene di coltellate, nonostante le necessità di “noleggio” che già in La casa dalle finestre che ridono Avevano costretto Pupi Avati a filmare quel sangue e quelle lame volanti. E c’è questo senso di congiura intorno al protagonista. Nel film precedente per tenere nascosto un segreto di cui l’intero paesino si sentiva complice omertoso; in questo caso per questioni che riguardano i poteri alti e le solite vaghezze occulte della cultura cospirazionista.

CAPITOLO 6 – LA CONGIURA DELLA MUSICA

Il nastro si inceppa e Stefano scopre parole impresse prima di quelle che ha appena battute a macchina lui. È ancora notte, quindi nel momento in cui legge piano le parole sul nastro, la sua voce è bassa, sussurrata, lenta, e un suono di tastiera, solitario, tipo moog, veleggia sotto la voce di Lavia, creando acusticamente un effetto simile a quello di Buono Legnani che sussurra parole strane in quel nastro registrato dell’altro film.

Ecco quindi un abbrivio simile: voci che emergono da apparecchi elettronici e un crescendo sinistro.

C’è chi sostiene che in molti film terrorizzanti, sia la musica a spaventare, non il film.
Al proposito, una volta una mia insegnante fece un esperimento. Vide Profondo Rosso con sotto la colonna sonora di Underground di Kusturica. Ha detto di non essersi spaventata come al solito.

Argento sapeva quanto fosse importante questo aspetto nei suoi film. E infatti ha finito quasi per plasmare la band di compositori che è diventata fissa nelle sue opere, vale a dire i Goblin, attribuendosi con leggera polemica di Simonetti, una paternità in Suspiria.

Ma come poteva essere altrimenti? Certo, Dario non sa suonare ma doveva spiegare e ispirare il gruppo che avrebbe realizzato ciò di cui aveva bisogno.
E non è un caso che Suspiria è, tolte le scene degli omicidi, narrativamente, il nulla.

Come scrisse anni fa un critico di Film TV in vena di stroncature impossibili, Suspiria è “ragazze che camminano lungo dei corridoi e si spaventano non si sa bene per cosa… poco altro”. Esatto, ma deve aver visto il film senza l’audio. Perché è la musica che produce tutto il turbamento. In noi, e come abbiamo scoperto dai retroscena del film, gli attori stessi, costretti a recitare con le musiche dei Goblin sparate al massimo volume tutto il tempo.

Nei film di Avati non è stato usato questo metodo di ripresa, ma il ruolo decisivo del sonoro è lo stesso. Sia In La casa dalle finestre che ridono che in Zeder, per quanto non siano due opere di culto paragonabili a Profondo Rosso (Gaslini e Goblin) e Suspiria (Goblin), per quanto non le due colonne sonore non si reggano su motivi memorabili e particolarmente originali, producono entrambe un loro effetto decisivo sulle immagini.

Nel primo caso l’arrangiatore Amedeo Tommasi, musicista di estrazione jazz, amico di Avati. Il secondo è il più celebre e affermato Riz Ortolani, famoso e rispettato compositore per il Cinema. Il suo lavoro su Zeder è in apparenza un po’ fuori tempo. Il tema principale infatti sembra un pezzo prog-rock, almeno nell’incipit. Poco dopo si trasforma in uno sciame di violini schizzati in stile Psycho (Bernard Herrmann) e poi rallenta nella seconda parte, trasformandosi in un’alta marea di archi drammatici e vagamente dissonanti. Quel senso di sospensione e di pericolo sono gestiti da Avati usando praticamente questi quattro minuti di musica.

Se escludiamo il pezzo di organo nella scena in chiesa e quel raggae-jazz-pop alla Lucio Dalla/Luca Damiano che introduce al nido tranquillo di Stefano e Alessandra, il resto è tutto lì, 4 minuti e 16 secondi gestiti in modo sapiente da Avati per tutto il film.

E quei violini alla Norman Bates possono anche fare il loro porco lavoro nella scena dell’accoltellamento della giovane ninfomane amante dell’attempato professor Chesi, ma diventano tutt’altra cosa quando accompagnano la camminata placida di Costa che sta venendo a prenderci tutti quanti. e somiglianza con Donald Trump.