I Satyricon e i dischi salvati da una canzone – La recensione del nuovo album

Può una sola canzone salvare un intero disco? Direi di sì, altrimenti come mai parliamo ancora di Fireball dei Deep Purple o magari And Justice For All dei Metallica, Ram It Down dei PriestThe X Factor degli Iron Maiden o Like Gods Of The Sun dei My Dying Bride. Tanti e tanti ancora ce ne sono. Magari non sarete d’accordo con questa mia piccola lista e di certo ne avrete una vostra con cui non potrei essere d’accordo io ma non è questo il punto! Io so solo che alla mia aggiungo senza esitazione questo ultimo disco dei Satyricon.

Canzoni flaccide, tediose, prolisse (alla Death Magnetic, per intenderci, come se mancasse un editing, ma senza produttori superpagati che approvano con un fremito di barba). Eppure c’è Phoenix. Qualcuno ha ululato di indignazione per Satyr che canta pulito (e dove andremo a finireee!) Anche se poi non è nemmeno lui ma Sivert Høyem, cantante dei Madrugada.

Ma chi sono i Madrugada? La band dove cantava questo tizio meraviglioso, è chiaro. E diciamolo pure, se Satyr avesse avuto una voce così bella sarebbe diventato molto più ricco e al posto di una Titti Angeramo poco disposta, il famigerato decanter glielo avrebbero portato due odalische col cerone. Ma sempre troppo ricchi sono i Satyricon, miseri posers, cacciati a pedate dall’Helvete, colpevoli di “magnare” sulle macerie dell’Inner Circle e di condurre il black verso il commerciale e bla bla bla… A ben guardare sono seguitissimi più dai detrattori che dagli ammiratori, anche perché numericamente i primi sono superiori ai secondi. E questo nuovo lavoro farà gongolare chi odia la band e deprimere chi la difende, poco ma sicuro. E io per una volta tengo i piedi in entrambe le fazioni perché secondo me i Satyricon sono un ottimo gruppo e i loro dischi, tutti a esclusione di questo, sono eccellenti. Il nuovo no, anche se il tentativo di fare qualcosa di diverso, di esplorare, creare e non mettersi lì con il pilota automatico e tirar fuori sempre la solita solfa stilosa, c’è. E bisogna darne atto a Satyr. Il disco fa schifo ma quando si sono messi sotto a comporlo e inciderlo, lui e Frost, non avevano un diamine di idea di dove sarebbero andati a parare, come sempre. A volte la pesca è buona e altre no. Stavolta la rete alla fine era vuota o quasi. Perché tra le poche cose c’era un’ostrica e dentro l’ostrica una perla!

teriiiiibbbiiileeee!

Phoenix da sola salva capre e pentacoli. Brano magnifico che cresce con gli ascolti nel mezzo di un piattume reso forse ancora più degradato dalla magnificenza della canzone stessa. Satyr continua a usare con gran parsimonia le orchestrazioni e gli “effetti speciali”. Ci assicura che ne ha disseminati ovunque nel disco ma in modo che si notino poco. Lui, sapete, è dichiaratamente contrario alla pomposità eccessiva scelta da certi colleghi del black da classifica (leggi i Dimmu). Lui, che ci crediate o no, si sente integralista. E allora sotto con basso, chitarra, voce e batteria. Frost a volte sembra un dilettante, altre una specie di drum machine gestita alla cazzo di cane, ma tutto questo è voluto da Satyr che di suo strimpelleggia e arpella e borbotta e gorgheggia come un dannato che non paga le corde, i plettri e il tempo che tutti noi gli dedichiamo. Quella canzone però salda da sola l’intero conto o quasi e va a finire che dobbiamo pure ringraziarlo. (Francesco Ceccamea)