Credo che poche cose siano noiose come le recensioni dei dischi degli Harem Scarem. Beninteso, non i dischi. Le recensioni, proprio. Cercatene in italiano e in inglese, sul web o sui cartacei, da vent’anni a questa parte. Accanto a un più o meno estensivo track-by-track troverete sempre i seguenti quattro o cinque concetti: 1) i refrain vincenti e gli hook sparsi per ogni dove; 2) la voce pulita di Harry Hess e le curatissime armonie vocali; 3) gli scattanti riff e i brucianti assoli di Pete Lesperance; 4) Mood Swings-miglior disco hard melodico-degli anni ’90-e anche oltre; 5) l’indignazione per la loro mancata ascesa a superstar; 6) nei più storicamente avvertiti, la lamentazione per cui “ah, se solo fossero arrivati qualche anno prima! Negli ’80 avrebbero fatto i multiplatinum ecc. ecc…”
Ora, per non apparire più spocchioso del dovuto, credo sia necessario specificare che tutti questi punti corrispondono a verità, e che in passato ho contribuito io stesso in almeno tre o quattro occasioni all’edificazione di questa vulgata critica.
Quindi, un po’ per saturazione, un po’ per emendarmi, un po’ per mia esigenza tardoadolescenziale di essere quello che si deve distinguere, ho deciso stavolta di fare qualcosa di diverso da una recensione di Change The World, pratica quest’ultima cui adempierò scrivendo in breve (in modalità più giudicante che descrittiva e argomentativa) che sì, il loro quindicesimo disco è bello. Il loro migliore dei tre pubblicati da quando si sono riuniti nel 2013.
Non perché sia diverso in essenza, giacché dai tempi di Weight Of The World del 2002 hanno trovato una misura stilistica univoca, da AC/DC del melodic rock, che fa spostare tutta l’attenzione sulla riuscita o meno delle singole canzoni.
La distinzione di Change The World rispetto agli immediati predecessori sta quindi in grado, ovverosia nel livello qualitativo delle singole canzoni. Come spesso capita al gruppo, in questo disco fortunatamente la riuscita è generalmente buona, configurandosi i pezzi, nei casi peggiori, come semplicemente orecchiabili. E nei migliori? Beh, l’hard melodico è un genere il cui ascolto talvolta si erge a esperienza esistenziale prima ancora che estetica.
Avete presente quelle canzoni che mentre le ascolti, preso in un momento buono, ti sembra che non ne possano esistere di migliori fuori dalle tue cuffie? Pensate a Distant Memory, per restare al gruppo in oggetto, e avrete capito di cosa parlo. Gli Harem Scarem sono quindi capaci di arrivare a queste vette, ma ovviamente non sempre ci riescono. Direi che dalla reunion a oggi ci sono anzi arrivati solo in The Midnight Hours, tratta da Thirteen.
Quest’ultimo disco è però quello nel quale in più occasioni vi si avvicinano dai tempi di Human Nature del 2006. The Death Of Me, Into The Unknown, Swallowed By The Machine. Sono questi tre i pezzi che mi sembrano avere una marcia in più, soprattutto per come crescono nella seconda parte, con l’assolo e la ripresa dei cori.
Mother Of Invention è invece meno immediata del solito ma cresce con gli ascolti, al contrario di parecchie delle altre loro – più dozzinali – ballad degli ultimi dischi. Degne di menzione anche la magistrale ancorché prevedibile Aftershock e la discretamente metallica Fire & Gasoline. E siamo già a sei pezzi su undici che meriterebbero di essere ascoltati da tutti quanti.
Già, perché alla fine il nostro cruccio resta sempre quello esposto sopra al punto 5: perché diavolo così pochi ascoltano un gruppo che ci pare essere tanto imprescindibile?
Nostro? Noi chi, direte voi. Presto detto: noialtri fan di Harry Hess e Pete Lesperance, i Jagger e Richards di chi non è mai stato cool.
Vedi mai convincessi qualcuno a dargli una chance mettendo a nudo quanto gli Harem Scarem siano stati importanti nella vita di qualcuno (nello specifico me medesimo), parto allora con un pervasivo ego trip che al confronto Eduard Limonov (morto il giorno prima quello in cui scrivo) era un narratore oggettivo dell’école du regard.
Una storia intima che comincia nel 1993 quando noto che, con l’eccezione di una delle recensioni ingenerose assai frequenti nel Metal Shock dell’epoca, sta riscuotendo notevole credito un disco chiamato Mood Swings. Io sono molto giovane e molto squattrinato ma mi interessa approfondire il genere, quindi mi rivolgo al mercato del tape-trading facendomene spedire una cassetta registrata insieme ad altri dischi simili (a memoria ricordo almeno Just If I e Red Dawn) da Luigi Pestelli, all’epoca mastermind della sezione AOR di Flash.
Ciò che segue sono due anni di ascolti compulsivi, rewind continui sull’assolo di If There Was A Time ed emozioni che pur in questo disvelamento non arrivo per un sussulto di riservatezza a confessare. Nel ’95 ecco Voice Of Reason, il classico disco maledetto che con fatica e costanza arrivo ad apprezzare in larga misura, seguito però dal lustro che in quanto europeo mi piace definire della scarsa reperibilità.
Nell’epoca immediatamente precedente a Napster, era infatti difficile procurarsi Karma Cleansing e Big Bang Theory fuori da Canada e Giappone, lontane terre fortunate in cui i miei eroi pubblicavano addirittura live e uscite di outtakes.
Va detto che a cavallo del millennio la natura già proteiforme del gruppo stava degenerando in una vera e propria crisi d’identità, con due dischi di fuzzy power-pop pubblicati con monicker diversi: Rubber in Canada, Harem Scarem in Giappone o non so dove, forse Lemon Target nel Baden-Württemberg e Soilcazzoiocomevichiamateora nel Belgio francofono.
Quando però mi stavo rassegnando all’esaurirsi di una passione sempre più carbonara, ecco l’italianissima Frontiers a rendere più che accessibili gli Harem Scarem per tutti gli anni zero. Anni di restaurazione di uno status da leader, seppur di nicchia, col nuovo picco toccato con Higher.
Anni nei quali quel gruppo prima così irraggiungibile mi diventa familiare al punto di recensirne tutti i dischi per Flash e addirittura concordare interviste a Harry Hess con Elio Bordi della Frontiers (ehi Elio, ci stai leggendo? In caso grazie ancora per i CD che mi mandavi in cambio delle volte che mi toccava chiamare in America a spese mie per le interviste).
Ricordo che Hess mi diceva come invecchiando sempre più apprezzasse formule basilari come quelle degli AC/DC, e infatti dopo tanti cambiamenti gli Harem Scarem presero a fare tanti dischi belli ma un po’ tutti uguali, finché non mostrarono la corda col debole Hope del 2008, cui seguirono scioglimento e, come dieci anni prima, confuse voci di nuovi progetti mai compiutamente realizzatisi.
La mia vita era però ormai presa da faccende più importanti, tali da far passare in secondo piano quel piccolo dispiacere. Allo stesso modo diedi poco peso alla scelta un po’ riccardona di tornare sulla scena con un’impraticabile versione risuonata del già perfetto Mood Swings.
Ma poi, arrivando all’oggi, ho accettato con serenità la nuova piacevole routine di un bel dischino nuovo ogni tre anni, da gustarsi a mo’ di affettuoso sesso coniugale che si dà per scontato ma quando manca si fa sentire. L’amore che strappa i capelli è finito oramai, ma qualche sparsa carezza e un po’ di tenerezza non sono da disprezzare.
Come concludere questa sbrodolata egolatrica? Evito di copincollarvi il file word appena ritrovato sul PC della retrospettiva di 13.019 battute che avevo dedicato agli Harem Scarem nel 2004 e avevo fatto pubblicare su Hardsounds.it (ehi ragazzi, vedo che ci siete ancora. Come mai non si trova più online?).
Dato che non farlo mi costa, perché mi pare ancora scritta bene e ne cambierei poco, mi rifaccio pubblicando la cosa più spiccatamente da bimbominkia che non lo fanno scrivere sulle riviste e allora posta le sue recensioni su Debaser: la classifica from first to last dei loro album.
1. Mood Swings (1993)
2. Higher (2003)
3. Harem Scarem (1991)
4. Voice Of Reason (1995)
5. Big Bang Theory (1998)
6. Human Nature (2006)
7. Karma Cleansing (1997)
8. Weight Of The World (2002)
9. Change The World (2020)
10. Thirteen (2014)
11. Overload (2005)
12. United (2017)
13. Hope (2008)
Fuori classifica i due apocrifi Rubber (1999) e Ultra Feel (2001).