The God Machine e quella risata su un letto d’ospedale

In questi giorni sto scrivendo una cosa su Cliff Burton ed è curioso che mi sia imbattuto nel secondo disco dei The God Machine e la storia che c’è dietro. Si intitola One Last Laugh In A Place Of Dying… Ha una copertina bianca e dentro al libretto c’è una dedica a Jimmy Fernandez. Chi è? Sarebbe meglio dire chi era, ma aspettate un attimo. Quando l’album uscì, questo gruppo, che probabilmente non ricorderete, era ben considerato dalla critica di settore e, in un periodo in cui andava parecchio di moda la musica indie (il 1992-94), per il trio nutriva molte speranze anche l’etichetta che ne pubblicava i dischi, la Fiction Records, (la casa dei Cure).

Purtroppo, dice Robin Proper Sheppard, vocalist e paroliere del gruppo, The God Machine erano troppo pesi per gli appassionati di musica alternativa e troppo indie per il pubblico heavy, quindi, come per i Die Kreuzen, sarebbero stati molto penalizzati da un mercato che si avviava, dopo una stagione creativa ambigua e all’insegna del mutamento, alla micro-settorializzazione.

A sentire i brani di One Last Laugh In A Place Of Dying, si capisce che questi tre ragazzi americani di San Diego, ma trapiantati a Londra, potessero scrivere pezzoni come R.E.M., Radiohead o Manic Street Preachers, e magari, se non fosse successo quel che è successo, adesso parleremmo di una gloriosa band degli anni 90, come certe altre.

Non possiamo farlo perché proprio negli ultimi giorni di lavorazione di questo secondo album, che sto ascoltando durante una delle prime giornate davvero appiccicose di giugno 2024, al bassista Jimmy Fernandez, iniziarono a venire dei fortissimi mal di testa.

La cosa davvero incredibile dei The God Machine, e questo loro album in particolare, uscito postumo tra ottime recensioni e l’indifferenza generale di un pubblico presissimo a piangere la scomparsa di Kurt Cobain, è che se si leggono i testi delle canzoni, sembra che a comporlo sia stato un malato terminale negli ultimi mesi che gli restavano da vivere. Invece no, dietro c’erano tre giovani di buone speranze e una certa inclinazione alla malinconia e alla spontaneità più estrema, costi quel che costi.

Jimmy Fernandez andò in ospedale per accertamenti, appena finite le sessioni di registrazione. I suoi due compagni del gruppo lo accompagnarono e probabilmente, come dice il titolo del disco, “Una risata in un posto di morte”, fu una cosa che avvenne davvero. Me li vedo, tutti e tre, lui nel letto e loro in piedi a guardarselo e travolgerlo con vagonate di sarcasmo. Avranno fatto battute contorte e ridacchiato, circondati dalla paura, la puzza di antisettico nel naso e in bocca e nelle orecchie le grida lamentose di qualche malato con le piaghe sul culo, in lontananza.

Ci vediamo domani, amico. Ci vediamo, bello. Buona notte. Vedrai che non è niente.

Jimmy andò in coma poco dopo il suo ricovero e morì qualche giorno più tardi. Gli altri due, Rob Sheppard e il batterista, Ron Austin, archiviarono la band su due piedi, senza pensarci nemmeno. Se non c’era più Jimmy con loro, non si poteva andare avanti. I The God Machine esistevano se tutti loro tre esistevano.

E così è stato. Ecco perché il paragone con i Metallica. Anche loro, quando morì Cliff, ebbero la tentazione di finirla lì, ma poi si dissero il genere di cagate che ci si dice in questi casi: “lui avrebbe voluto che…”

Lui cosa? Non lo disse mai, non ne parlarono affatto, quando era vivo, di quell’eventualità e di come gli altri avrebbero dovuto comportarsi. Nessuno si sarebbe aspettato che morisse in quel cazzo di modo, quindi non c’era un piano da attuare dopo quel tristissimo giorno di settembre del 1986. Ma conoscendolo, Cliff avrebbe voluto che…

I morti non parlano. Per questo i vivi lasciano un testamento. Il loro silenzio successivo è solo silenzio. Non è né assenzo né dissenso. Ogni voce nel cuore e nella testa di chi vive, è un dialogo interiore schizofrenico che fa parte del ciclo riabilitativo del lutto. Magari anche Jimmy Fernandez avrebbe voluto che Rob e Ron seguitassero, ma non lo vollero loro. Dissero basta e quel basta dura ancora oggi. Non c’è più traccia dei The God Machine. Non so se sia un peccato. Di sicuro lo è se non ascoltate almeno una volta quello che hanno lasciato. Due album notevoli, interessanti, pieni di dolore e di personalità.

Appena Jimmy se ne andò, gli altri non mossero più un dito. Lasciarono che One Last Laugh In A Place Of Dying… uscisse, certo. Esso galoppò lungo il deserto e sparì lasciando una eco ipnotica per tutto il tramonto che ancora dura sulle nostre teste, come un cavallo sellato ma senza un cavaliere sopra. Il disco non subì alcuna modifica da quella sera in cui, finite le registrazioni dissero che era fatto. Rob e Ron se ne disinteressarono, evitando di trasformare The God Machine in una patetica storia di dolore da offrire alle casse triviali dello showbusiness. I brani si chiamano per sempre con i titoli provvisori che gli erano stati dati durante le sessioni d’incisione: The Love Song; The Train Song, The Flower Song, Evol, The Hunter e così via.

E questi brani esprimono un violento bisogno di sincerità. Sono tremendi, esoterici, colano una strana magia sul cuore, come un miele verde menta. Talvolta i pezzi, specie i primi, come The Tremolo Song o Mama ricordano i Jane’s Addiction ma con un andatura generale più spigolosa e vicina alle asprezze degli Swans. The Hunter e i suoi nove minuti di chitarre fraseggiate sull’un due tre della batteria, con i violini alla Cure e le esplosioni elettriche in un’orgia tra carni crude e spettrali, antiche ferite; Boy By The Roadside, oscuro folk confessionale intonato all’ombra di un giovane impiccato col viso sereno. La chitarra in punta di piedi di In Bad Dreams, che si avvicina come quel vecchio amante a cui permettiamo di tornarci a trovare solo nei nostri peggiori incubi. Insomma, è davvero una gran cosa, ‘sto album.