Vredehammer e la morte black metal a punteggio pieno

Vredehammer è l’eccellenza di un certo tipo di black metal odierno. Così sembra. A sostenerlo è gente che mangia, beve e caga metal estremo dalla sera alla mattina. Mi sono fatto questa idea. Chi si ciba di sola pizza, non è un buon critico della pizza. Non so se vi è mai capitato di seguire una lunghissima serie televisiva, di quelle interminabili, tipo The Walking Dead. Finché ci state dentro, più o meno siete in grado di capire tutto ciò che la sceneggiatura vuole che capiate, ma se perdete una stagione, ecco che, per quanto la seria non sia così complessa da seguire visto che la storia è sempre la stessa, qualcosina è cambiata e vi sentite un po’ straniati. Un nuovo personaggio, una nuova location, un fatto di cui i protagonisti parlano e che voi, rimasti indietro, non potete conoscere.

Quando mi ascolto una band black o death metal post-2010, ho l’impressione di reinserirmi in una interminabile serie televisiva, in cui, una volta mollato il routinario narrativo, è difficilissimo, almeno per me, reinserirmi. Non tanto per un discorso di comprensione, fanno sempre la stessa cosa e se ne vantano, ma proprio perché il distacco permette di comprendere l’insensatezza di questa continuity.

Vredehammer, che ha fatto strappare i peli sopra le orecchie a molti blackster sul pezzo, per me non esprime nulla di particolarmente esaltante. Non aggiunge elementi personali al discorso generale e mostra i consueti difetti delle one metal band.

Il fenomeno delle one metal band, di cui scrivo qui, è che pur non compiendo lavori creativi in modo collettivo (due o tre persone che interagiscono tra loro e, ognuno col proprio strumento, collaborino al conseguimento di una visione condivisa) fingono di essere un gruppo. Non ditemi che è solo un’idea mia, perché Vredehammer, tanto per dirne uno, o se volete Nergal e i suoi Behemoth, realizzano i dischi interamente da soli. Li scrivono, li definiscono nei dettagli e poi coinvolgono due bravi musicisti o tre o quanti ne vogliano, per eseguire ciò che loro hanno deciso, anche nelle più specifiche minuzie. Poi però si fanno la foto tutti insieme, come se fossero una band.

La foto fa parte di una sessione che, una volta eseguita, vede i tre o più musicisti separarsi e non rivedersi fino alle date del tour, dove suoneranno fedelmente le partiture di un solo direttore d’orchestra, compositore e maniacale controllore.

La tecnologia ha permesso a un artista di non accettare i compromessi degli altri, di non dover ammorbidire il suono delle chitarre, se no il suo batterista se ne va, di non accogliere un cantante la cui voce lo irriti, ma dato che è il solo nel raggio di mille chilometri, deve farselo andar bene. Eppure tutto questo faceva i Led Zeppelin e i Black Sabbath, capite?

Partorire, definire e registrare l’esatta cosa che gli è venuta in mente, ecco cosa vuole. Ed è felice così.

Ma al di là della schizofrenia di voler essere il batterista, il chitarrista, il cantante, il bassista, il tastierista, il produttore e l’ingegnere del suono, il one man band non riesce, a meno che non sia il personaggio di Split. E la cosa si sente dalla piattezza innegabile della stragrande maggioranza delle produzioni estreme, sia black che death.

Prendiamo il nuovo album di Vredehammer, God Slayer. A parte i contenuti dei testi, sempre fissi su paganesimo, naturismo, monti vichinghi, anticlericalismo e misantropia, su cui non avrei nulla in contrario se non fossero sempre le stesse solfe concettuali scritte in una lingua non propria e quindi conosciuta a livelli molto elementari, i brani appaiono come dei tranci cuciti insieme da una batteria perennemente in furia, tra blast-beat e accelerati in battere o levare. Non c’è quasi mai un momento in cui si dia un po’ di respiro all’orecchio e alla mente. Tutto è trivellato da questa doppia cassa che rende l’ascolto monotono e noioso. Ho contato quattro o cinque momenti in cui si sospende quel boroboroborobom, per dare un po’ di aria al cuore, con un tunzappero ambient e un Carmina Burina dei soliti.

I soli pezzi dove succede qualcosa di coinvolgente, per me, sono The Dragons Burn e Product Human Slave, in cui la ritmica e il riffing diventano thrash, anche se c’è chi definisce brani così, soprattutto il secondo “escursionismi black and roll”.

Le chitarre, tra Slayer e tritoni, sono delle gustose variazioni dei riff black. Magari c’è un anticipo che trasforma un composto sentito cento volte, ma non nello stesso identico modo. Questo non fa pirapirapirapi, fa pirapirapuraparapi!

Il cantato è suddiviso in urla e borbottii crudeli, stile Shagrath Puritanico e il basso e la doppia cassa sono praticamente lo stesso suono, come è d’uso nella scuola black metal.

Ora, capisco che il genere abbia delle logiche non condivisibili da chi non sia completamente immerso nella ristretta dimensione del genere stesso, quindi non dovrei nemmeno scrivere ‘sto articolo, ignorare Vredehammer e la stragrande maggioranza dei dischi super-elogiati dalle webzine metallare in ambito black e death, e continuare la mia vita dietro a vecchie ristampe di album anni 90, eppure non ce la faccio a stare zitto. Voglio partecipare al mio tempo e non arrendermi all’idea che sia io troppo vecchio per capire come vanno le cose.

Per Valla, l’uomo che c’è dietro Vredehammer, è del 1981, quindi è quasi della mia età, non è un ragazzino di diciotto anni che non posso comprendere perché di una generazione troppo oltre la mia. E’ un boomer come me e fa musica prevedibile e incastonata in patterns abusati. Potrebbe esprimere se stesso oltre queste gabbie ritmiche, questi combinati di riff e urla, questo poetismo da topo di montagna, e invece fa solo del cazzo di black metal uguale a tutto l’altro, e si prende dei voti alti, perché se non esistesse un’eccellenza dell’ovvio, tutto sarebbe davvero ovvio.

Finché il black metal userà i soliti quattro elementi che del resto lo definiscono e gli permettono di essere riconosciuto in quanto tale, si somiglierà sempre tutto e sarà palloso, inutile e intercambiabile. Per intuire la diversità di una band rispetto a un’altra c’è da tagliare dei peli e confrontarli contro-luce, col sospetto che appartengano alla medesima schiena irsuta.

Il suono, il lavoro di chitarre, la totale assenza di dinamicità tra gli strumenti, le produzioni autarchiche e soprattutto l’assenza di una direzione che non sia aggiungere un velo di elettronica nel disco successivo o inserire un coretto in norvegese ogni dieci canzoni, è il week-end con il morto del black.