Scäm Luiz – C’erano un tedesco, un nero e un indonesiano…

Vale la pena continuare a scavare. Ci sono un sacco di tesori là sotto. Per dire, mai avrei sospettato di esaltarmi per questo trio razzialmente variegato, sparito dalla circolazione molti anni fa, dopo tre dischi e un sacco di recensioni entusiaste. Ci si mise pure Gianni Della Cioppa, con la sua candida verve a esaltare gli Scäm Luiz. Scriveva del secondo album, No Pain No Gain, uscito nel 1993, ma ci teneva a precisare che il primo, Heading For Tomorrow, aveva allietato la sua estate dell’anno precedente e per lui sarebbe stato difficile creare qualcosa allo stesso livello.

A quanto pare gli Scäm Luiz si superarono con questo portentoso mix di hard rock. funky, istrionismo word, rap e dance. Al tempo imperversavano diverse band fuori dagli schemi, talmente tanto fuori che era praticamente impossibile classificarle. Bastava però che ci fosse un po’ di metal e finivano su Metal Shock o nel settore tallico dei negozi di dischi. Non le trovavi tra i dischi funk o rap. Erano accolte solo dalla riserva metallara, come rifugiati politici. Dubito che i lettori accorressero nei negozi chiedendo dei Mordred o dei Dan Reed Network, invece dei soliti gruppi thrash, almeno in Italia, ma lasciamo stare.

La cosa curiosa è che molti di questi progetti scatenati furono accolti bene più in Europa che negli U.S.A. dove qualche anno più tardi sarebbe esploso il Nu Metal, traduzione in soldoni di quello che le crossover band di questo periodo avevano già fatto. Non so quanto gli Scäm Luiz abbiano raccolto negli anni. Vorrei parlare con loro per togliermi qualche curiosità. In rete non c’è praticamente niente e mi piacerebbe contribuire a farli conoscere, anche se con più di trent’anni di ritardo.

Perché sia chiaro, No Pain No Gain è un disco bomba inesplosa. L’ho tirato fuori da sotto una coltre di schifezze anni 90 e mi sono fatto artificiere prudente e agilissimo pur di non farmi saltare per aria.

Non bastò l’entusiasmo fanciullesco e solare di Gianni (l’ottimismo!) a farmelo capire. Li ho dovuti ascoltare per rendermi conto che questi tre olandesi di cittadinanza, provenienti chi dall’Africa, chi dalla Germania e chi dall’Indonesia, avevano una grandissima tecnica, una versatilità generosa e soprattutto la rara capacità di scrivere canzoni che si tengono su ancora dopo decenni di intemperie stilistiche e tempeste di polveroni revisionistici un po’ cattolici, visto che dall’abisso salvano praticamente tutti quanti.

Nonostante questo, c’è bisogno di cercare tra le macerie algoritmiche della frammentazione fruitiva e riportare all’attenzione ciò che potrebbe rimettere i pezzi insieme, anziché nutrirne lo spezzettamento.

Intanto c’è questo chitarrista squisito, capace di giostrarsi tra Van Halen, Steve Vai e Toni Iommi, il suo nome è Holger Larisch, lui sarebbe il tedesco, di Bremen. Poi la sezione ritmica serrata e zuzzurellante del batteraio Menno Brenkman di Djakarta e del bassoide Jimmy Klimsop, il quale viene da un posto chiamato Paribo, sud-Africa. Costui è soprattutto un eccellente vocalist, capace di spaziare dalle gigionerie di Dave Lee Roth alle invettive dei mariachi. Può intavolare un gran bel soul con i coglioni pippati alla Glenn Hughes alle architetture bombaste dei vecchi rapper stile M.C. Hammer (Nimm Dies).

La cosa che mi fa impazzire di No Pain No Gain è che quando arrivano i riff sono veramente dei grandiosi riff metal. Non si tratta di qualche rimpasto fac-similare tanto per dare l’idea che ci sia pure quello. Sono riffoni che ti schiacciano a terra come poliziotti furiosi a una retata, cazzo.

E proprio in quei riff ci ho trovato Toni Iommi, ma non quello dei Black Sabbath di Ozzy o di Ronnie Dio, parlo del meno considerato, quello di Tyr o Headless Cross, con Martin alla voce. Basta sentire l’attacco di Sell Your Soul ma soprattutto Praying. Mettete questi due pezzi a palla e osservate il mondo che sprofonda intorno a voi. Ma c’è anche posto per il class metal alla Dokken in chiave Primus (It’s All Right) e quello che gli Steel Panther fanno ora con venticinque anni d’anticipo, vale a dire un demente quadretto erotico glam-ente (Poetry Album).

Ma il pezzo forte è la cover di People Are People dei Depeche Mode. Credo che, come nel caso dei Gorky Park alle prese con My Generation degli Who, si tratti di una rilettura extra-testuale fortissima capace di rendere dei rifacimenti, autentici assalti frontali alla cultura anni 80/90.

Non voglio vendervi nulla. Provateli un momento, lascio il link qui sotto dell’intero album No Pain No Gain. Valutate da soli. Questi ragazzi spaccavano la noce del capocollo e se lo glielo permetterete, lo faranno ancora.

Attenti però. Lasciate stare il terzo e conclusivo Braincandy. Lì credo non ci sia più Holger alla chitarra e la parte heavy sparisce quasi del tutto dalla formula stilistica del gruppo. Si tratta di un buon album, ma fuori dalla nostra giurisdizione, ed è un peccato.