Con Ihsahn a passeggio nella selva oscura

A quanto pare il nuovo album di Ihsahn, intitolato semplicemente col suo nome, riparte dal black metal, dalle sinfonie e la voglia di sperimentare. Questo è un bene o un male? Non saprei. Per quanto mi riguarda quello che conta davvero è se l’album sia buono o no. Non sono un fan degli Emperor, non ho nostalgia per il passato di questo musicista e non seguo con maniacale e febbrile attenzione le sue scorribande compositive. Ho ascoltato abbastanza da considerarlo uno dei pochi artisti con una genuina inquietudine e voglia di esplorare, alla faccia delle malinconiche reunion e delle un po’ vigliacche retromarce stilistiche in nome dei vecchi tempi. Ihsahn va per i fatti suoi e ammetto che questo lavoro è fico. Certo, l’ho trovato complessivamente un po’ troppo ridondante, serioso e “sulle sue” ma il tizio è così e va compreso. Ihsahn è un compositore molto fiducioso in se stesso ma anche in perenne crescita. Il suo omonimo e un po’ testamentario album è genuino, coraggioso e sovente, nonostante il richiamo al passato estremo, volto al futuro, all’ignoto.

La cosa che mi ha sorpreso davvero non è la parte rock e metal. I suoni sono più o meno sono i consueti e le dinamiche pure. Blast-beat, riffazzi cattivi, urla, melodie piano-forte un po’ alla Opeth e via barbando. Ciò che ho trovato intrigante è la scelta dei pattern sinfonici. Sembra a tratti di vedere una trasposizione dark di Bambi, con questo misto di rovi e corna, nuvole e sole filmico e jezzato, fantasioso e solenne: una roba tra Brahms, Danny Elfman, Elmer Bernstein e Bernard Herrmann. Tutto questo bell’ordito orchestrante si lascia masticare e ingoiare, come un docile cerbiattino, dalle voraci chitarre e le fameliche urla di una belva lupina emersa cacchia cacchia delle tenebre boschive per fare merenda.

Ciò che immagino ascoltando Ihsahn, forse istigato dalla copertina, è un viaggio scandito dal battere selvaggio di un cuore creato per fuggire e che bussa furiosamente da dentro il peloso pettame di un giovane cervo, la cui breve esistenza si consuma nelle profondità della natura, così accoglienti e materne, ma anche tanto pericolose e assassine. Non tutto quello che ho sentito mi ha stregato di Ihsahn, non tutto mi ha avvinto e conquistato. Penso che potrebbe anche smetterla di comporre roba e darci il tempo di raccapezzarci, che so, per una decina d’anni su tutto quello che ha elargito con grande generosità creativa da  dal 2006 a oggi. Otto lavori densissimi che sul nastro trasportatore dei recensori beccano voti altissimi all’unanimità per rispetto e venerazione, più che altro.

Però devo ammettere che sa scrivere musica come pochi in giro e che la fusione tra archi, fiati e metal di questo suo ultimo lavoro mi risulta fresca e complessivamente molto fluida. Non sa dove stia andando ma ci va di tranquillo, seguendo una corrente speciale.  In particolare suggerisco di ascoltare la lunga e avvolgente At the Heart of All Things Broken. Non ho sentito nulla di così potente e raffinato in tutto il 2024, per il poco che vale.