King Of Kings – Un disco total rock che ci ha dimenticati tutti

Intanto i debiti: ringrazio Frank Cavallo per avermi fatto scoprire i King Of Kings. Appena mi ha passato il link di youtube con l’intero album in streaming mi si è accesa la lampadina. Ricordavo la copertina del disco. La vidi su un HM di molti anni fa, uno di quei numeri “speciali” che, chissà per quale ragione, leggi e rileggi più degli altri, fino a imprimerti nella testa foto, artwork e magari una pubblicità sulla vivisezione. Sono andato a recuperare la rece, scritta da M.G. e l’ho trovata molto interessante, anche se, mettendomi nei panni di un potenziale giovane acquirente di quegli anni, sarebbe stato impossibile capire di che disco si trattasse. E ancora oggi, se non ci fosse internet e io dovessi spiegarvi che genere di album sia King Of Kings, mi inerpicherei in una serie di volute fumose fatte di emotività e vaghe descrizioni tecniche intriganti ma assolutamente prive di qualsiasi correlazione con l’effettivo contenuto dell’album.

Faccio prima a dirvi che questo è un lavoro fuori dagli schemi dei primi anni 90. Uscì allora, pubblicato da una grossa etichetta, la Geffen. Ci fu anche un lungo e oneroso lavoro produttivo di Roy Thomas Baker, nonostante la batteria sembri registrata dentro un cesso con il microfono della parrocchia infilato da un gloryhole.

King Of Kings era alternativo pure per il cosiddetto genere alternative di allora: la roba alla Primus, i Tool e via così facevano cose originali, di qualità ma erano già semi-plasmate per il percorso commerciale di quel tempo. Li associo solo a un altro gruppo fuori da tutto, i Naked Sun, ma questi vanno ancora oltre rispetto pure a loro. Non era “avanti!”, come si suol dire di tutte le povere band incomprese che ancora qualche focolaio di eletti rimembra sul web. Semmai tornavano indietro, nel passato più profondo del rock, quando esso era un magma di cose ancora lontane dal segmentarsi in mille sottosviluppi etichettevoli.

Quello dei King Of Kings sembra arrivare dall’epoca primaria in cui un gruppo cosiddetto rock, poteva suonare pesantissimo e non “fare hard rock”, spaziare dal jazz alla psychedelia e non essere prog. E non vi dico che sia un album meraviglioso, pieno di momenti irresistibili. Si tratta di un lavoro interessante sì, ma più quando quando molla la forma canzone, nello specifico abbastanza vaga e trascurabile, e se ne va chissà dove, tra evoluzioni di basso, chitarra e batteria jazzoidi, o si arena su vaghezze pianistiche sospese sul silenzio dopo una disgrazia, arabeschi mediorientali o barbagli country-pop pacchiani.

C’è anche il rock duro, volendolo cercare, ma è raramente incasellabile come tale. Far uscire un album del genere, nel 1991, significava solo andare a turbare le silenti ortiche o aggiungere volume al letamaio di un porcile. Questi tre musicisti pestavano sodo e lo facevano sovente lungo le strutture vertiginose, però non c’era quasi nulla che li potesse ricondurre a un riffone dei Deep Purple, un controtempo dei Zeppelin o un ritornello dei Free, per capirci.

Vi offro un consiglio, se avete voglia di provare i King Of Kings. Lasciate stare le classificazioni. Non perdete tempo a individuare il codice ram di queste rutilanti e ingestibili composizioni. Non serve a niente. Godetevi la cosa e basta. Dura un’ora precisa, è densissima, ci vogliono decine di ascolti per dipanarla e apprezzarla fino in fondo e non c’è nulla dopo, come non c’è niente prima, a livello di esperienza in tutto l’art rock anni 90. Si tratta di un episodio unico, che nasce e muore lì e risorge ogni volta che un qualche cristo si avvicina. Fa specie non trovarne quasi tracce su internet, come se l’avessimo dimenticato. Secondo me è lui che ha dimenticato noi. Si tratta di una divinità sonnacchiosa che vaga in un sogno, come un piccolo battello fantasma, su cui difficilmente qualcuno vorrebbe salire a curiosare.

Fa specie che David Gaffen scommettesse su una roba simile. M.G. scrisse una cosa giusta su HM, la voce di Desmond Horn ricorda il Lemmy dei Sam Gopal e Hawkwind, non come lo paragonò qualcuno, Jim Morrison. Si tratta di musica spaziale nel vero senso della parola. Vi allarga il cranio, ammesso che ancora sia un po’ malleabile, altrimenti ve lo spacca. Siete avvertiti. Kevin O’ Neill è un grande chitarrista.