Nel 2004 gli Atrocity, la miglior formazione che gli Atrocity abbiano mai avuto, si sdoppiano e come Clark Kent con Superman diventano gli Atrocity ma anche i Leaves’ Eyes. Questa nuova incarnazione ha un valore aggiunto, che poi è anche l’origine del monicker, Liv Kristine Espenaes, all’epoca moglie devota di Alexander Krull, ex Theatre Of Tragedy e già collaboratrice degli Atrocity dal 1997.
Gli occhi di Liv, bellissimi, sono anche le foglie autunnali che ammantano il paesaggio sonoro del loro album d’esordio, Lovelorn, preannunciato dal singolo Into Your Light, che a tutt’oggi rimane la loro miglior canzone mai scritta. Mathias Röderer (chitarra), Chris Lukhaup (basso), Martin Schmidt (batteria), Thorsten Bauer (chitarra), naturalmente Krull e naturalmente Liv, sono i sei elementi di un ensemble sorprendente perché sterza nettamente rispetto alla band madre.
O meglio, gli Atrocity lo stesso anno pubblicano il loro album più gotico, liminare al sound dei Leaves’ Eyes, anche se mille volte più furioso (mi riferisco ad Atlantis), tuttavia è pur vero che a partire dal 1990 i tedeschi creano una congerie di dischi variegatissimi ma sempre all’insegna della violenza, tra death metal, progressive death metal, groove, thrash, industrial, retro nostalgia anni ’80, folk, elettronica e chi più ne ha più ne metta.
Lovelorn è un lavoro prettamente gothic, con tutti i crismi gothic, melodie malinconiche, doppio cantato “la bella e la bestia”, accenti crepuscolari e romantici. È buffo a dirsi perché se oggi pensiamo ai Leaves’ Eyes pensiamo esclusivamente ad una band viking metal, filologicamente viking metal, monotematicamente viking metal, testardamente viking metal (e io aggiungerei ottusamente viking metal).
Che poi, parliamo di power metal vagamente sinfonico con ambientazione vichinga, il vero viking metal (quello di Einherjer, Thyrfing, Mithotyn, Falkenbach, etc, è tutt’altra cosa). Della formazione di Lovelorn oggi nei Leaves’ Eyes c’è solo il padre-padrone Krull, Liv Kristine non è più neppure sua moglie, col paradosso che una band che porta il suo nome prosegue imperterrita senza la sua scaturigine (concettuale e poetica).
Le dieci tracce che compongono il minutaggio di Lovelorn sono perfette nella loro compattezza ed essenzialità, 41 minuti senza sbrodoli e lungagnate inutili nei quali c’è tutto il dovuto, niente di più, nessun grillo per la testa. Eleganza, ariosità, delicatezza, maestosità, sensualità ed un tocco di tenebra.
La sinergia dei musicisti con Liv Kristine è vincente, quella formazione ha segnato la parte migliore della carriera degli Atrocity, quando ancora erano un gruppo, con contributi diversificati tanto al songwriting che agli arrangiamenti, anziché un progetto leaderistico dei soli Bauer e Krull, e poi addirittura del solo Krull.
Nel tempo gli Atrocity hanno fatto esattamente la stessa fine dei Leave’s Eyes, disco dopo disco si sono esauriti, avvizziti. Pur reputando i Leaves’ Eyes di stampo vichingo decisamente inferiori a quelli gotici, la loro produzione è stata dignitosa (ancorché calante) fino al 2013, fino a Symphonies Of The Night. Gli Atrocity hanno pubblicato veri e propri capolavori, gemme inestimabili negli anni ’90, ma con la pedanteria dei sequel di Werk 80 e Calling The Rain (rispettivamente Werk 80 II e After The Storm) si è cominciata a vedere la carenza di ispirazione, il ripiegamento, la creatività che li abbandonava, languida e decadente come la copertina di Todessensucht.
È seguita la trilogia di Okkult, megalomane e vuota. Se il primo album si poteva ancora salvare, giusto per la potenza e la cattiveria (ma il dinamismo e la profondità all’interno del songwriting erano già dei cari estinti), i due capitoli successivi hanno certificato la sopraggiunta e a quanto pare irreversibile aridità compositiva della band, che oramai non si può più nemmeno chiamare tale, è un progetto solista di Krull assieme a dei carneadi con 20 anni di meno che portano energia fresca dietro gli strumenti.
Krull è un manager, un procuratore calcistico che sembra intendere la musica più come un business che come una passione o una forma d’arte. Forse all’inizio non era così, anzi non ne dubito, ma da un certo punto in poi ha buttato nel cesso i sentimenti e si è preoccupato unicamente del conto corrente.
I Leaves’ Eyes dal secondo album hanno rinnegato l’esordio ed intrapreso un corso totalmente nuovo.
Siccome l’Ep Elegy e poi il full-length Vinland Saga (entrambi del 2005) si sono rivelati due buoni lavori, l’idea era che quella fosse magari una fase della band, anche perché l’iconoclastia è sempre stata un tratto fondante degli Atrocity. Era legittimo aspettarsi un mutamento continuo. Andando avanti con le pubblicazioni poi si è chiarito che quella vichinga non era affatto una parentesi, una esplorazione, un capriccio, bensì la nuova e definitiva personalità della band, un cambio di connotati senza retromarcia, un vestito di piombo.
È stato abbastanza sconcertante dover prendere atto che dopo appena un album “quei” Leaves’ Eyes non esistevano più, come fosse stata una falsa partenza, un passo falso. A fronte poi di un ottimo disco. La stessa Liv Kristine si era prestata a questo stravolgimento e dunque ne certificava la autenticità. Sappiamo come è finita.
Liv è sparita dopo King Of Kings ultimo (bruttissimo) lavoro con lei al microfono. Oggi i Leaves’ Eyes sono dei cosplayer vichinghi da festa paesana e francamente non ho mai compreso perché dei tedeschi si sentissero così vichinghi nell’anima. A me manca moltissimo la band di “Lovelorn”, un sogno ad occhi aperti di erotismo, rugiada, sapori notturni ed un filo sottile di violenza come la venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch e di Laura Antonelli.
(Marco Tripodi)