Sdangher e i Genitorturers, un rapporto di stima coltivato negli anni ma a distanza di sicurezza e basato sulla fiducia; almeno da parte nostra, loro non sanno nemmeno che esistiamo. Forse lo sperano… E comunque, non ho mai scritto un articolo su Gen e la sua gangbang e vi confesso una cosa: so chi siano, conosco la faccenda Gen & Dave Evil D. ma non ho mai sentito uno dei loro dischi. Mi sorprendo che in tanti anni ne abbiano pubblicati un numero così esiguo, tre LP più qualche EP, e me ne rallegro. Dal mio punto di vista, meno dischi ci sono da analizzare, approfondire, digerire, meglio è. Non vivo più la musica come un fan. Aspetto l’arrivo di un nuovo album con l’ansia di chi sa che dovrà sgobbare ancora una volta sulle prodezze artistiche di questo o quel gruppo, quindi se mi ritrovo davanti una band stitica, tanto meglio. A parte questo, come vi dicevo, oggi ho colmato un’altra delle mie innumerevoli lacune e ho sentito per la prima volta, un album dei Genitorturers. Per cominciare ho scelto banalmente l’esordio: 120 Days of Genitorture.
Cosa ne penso? Che è carino, un mistone di industrial alla Ministry, hardcore sporco di metallo e punk lercio avvolto nel cellophane. Non mi dispiace, sa di anni 90 e di quel meraviglioso sconfinamento di generi a cui molte nuove band si prodigavano senza neanche farcelo pesare. Era una connessione intrigante tra musica industriale, i libri di Clive Barker, i film di Richard Stanley e Non è la Rai, almeno nella mia mente di adolescente di quel tempo. Si mantiene bene negli anni, considerato che ne sono passati più di trenta, sembra ancora moderno, nell’accezione più pregiudiziale per chi considera il metal classico come una cosa che non va oltre il 1992. Tutto ciò che venne dopo era, è e sarà sempre “il moderno”.
Lo stile del gruppo è classicamente anni 90 e ahimé, senza il correlativo scenico, fatto di spettacoli bondage spericolati, annaffiati di sangue, armonizzati di frustate e insulti pronunciati con un’inflessione Oxfordiana; soprattutto senza lei, l’avviluppante sacerdotessa del male che ci piace: Gen delle colongram, la Yoko Ono dei Morbid Angel, come ci racconta nel bellissimo articolo pubblicato su Elder’s Comet, Marco “Benbow” Tripodi, che vi consiglio di andare a leggere per approfondire sul serio la faccenda. Senza di lei tradotta come si deve nella propria musica, le canzoni alt-metal di 120 Days non riescono da sole a crearne l’effetto, nemmeno un po’ per quanto mi riguarda.
So che nel tempo le cose sono cambiate. Lo stile si è fatto un po’ più sintetico insieme a Dave Vincent in formazione, con l’uscita del secondo album Sin City e poi sono divenute più artefatte e canoniche nell’ultimo disco del 2009, Blackheart Revolution, ormai tutto ritagliato sulla figura di Gen e indirizzato alle classifiche radical-chic.
Insomma, ho apprezzato l’atmosfera sudicia di certi momenti: Pleasure in Restraint o Forced Fad, ma leggendo prima i testi, e non chiedetemi perché l’ho fatto, mi aspettavo qualcosa di meno burino, sì lascivo e perverso ma in un modo musicalmente più fantasioso, senza puntare tutto su ferocia e canonici pattern di blasfemia; la mia delusione è stata soprattutto sul piano interpretativo della stessa Gen. Io sento una voce roca e guttiraliaca, che strilla dei testi, per lo più.
Insomma, le canzoni del primo album delle Genitorturers non mi eccitano da sole. Mi rendo conto che sono un accessorio dello show a cui non ho mai assistito. Prese a parte dell’insieme sembrano abiti di scena appesi a un uomo morto. Abiti degli anni 90.