Un altro giro per Andy Scott e i suoi Sweet

Gl’inglesi come spesso accade, sono schizofrenici: mentre voci di addetti ai lavori chiariscono i motivi di quanto sia imbarazzante l’ultimo disco dei Judas priest, Andy Scott ha rotto il suo silenzio discografico, durato più di ventidue anni con Full circle, un disco quasi enigmatico sul versante delle reazioni: o io non so più ascoltare la musica o chi lo ha recensito stava ascoltando altro. Ed è questo mistero che mi spinge a descrivere un lavoro che è uno spaccato fenomenale del mondo interiore (o almeno d’una parte) dell’ultimo superstite della formazione originale degli Sweet.

Quando nel 1974 azzardai a dire che KISS e Sweet stavano dando al Metal dei Black sabbath una colorazione che sarebbe stata accettata per i Girl come Glam, venni subissato dalle critiche oltranziste di chi ricordava i loro esordi Pop, invero melensi.

Ma nessuno è profeta in patria, figuriamoci un mezzo celto e italo terrone nel Regno unito.

Ancora mezzo secolo dopo pochi si avventurano fuori dalle definizioni strette di Hard e Glam Rock. Non solo pareri illustri e cover, ma l’ascolto dei loro classici usciti nel 1974-76 svela un gruppo che pescava nell’Hard contemporaneo ma appensantendo il muro di chitarre come solo Iommi e i Sir lord Baltimore avevano osato.

Il resto è storia: le sfortune abbattutesi ripetutamente e quattro dischi mal prodotti pur con delle buone idee, fecero dissolvere il gruppo prima dell’esplosione dei Quiet riot che li avrebbe quantomeno rilanciati. Andy Scott ricostituì un nuovo gruppo che però rilasciò anni dopo la registrazione di un disco dal vivo che cercava il dialogo con i suoni del periodo.

Strana scelta, che gli fece perdere un altro treno, oltre i continui problemi di gestione e formazione. Il primo nuovo disco in studio fu A, nel 1992. All’epoca m’illusi che fosse un nuovo inizio, tanta era la carne al fuoco e il valore delle canzoni, compresi ironici riferimenti a Def leppard e Motley crue.

Inutile riparlare della tempesta Grunge e del male occorso, Scott è impermeabile a quel mondo e ha deciso di usare un metodo di scrittura lungo e aperto: è la qualità che va cercata, quindi non un disco all’anno dando l’impulso e la giustificazione a chicchessia per inondare il mondo di spazzatura. Oltre ad una spontanea spiritualità, il disco parla a tutti, ma il ciclo è completo.

Forse non i problemi personali o non le perdite lungo la strada, forse qualcos’altro è insito in quel titolo, e questo mistero invoglia ancora di più nell’ascolto, nella comprensione.

Che sia della sua carriera di musicista, della sua salute, degli Sweet, del Glam, del Metal o della musica popolare non venduta alla Melassa, spero sia un suo eccesso di pessimismo, ma il suo è davvero l’ennesimo campanello d’allarme. Io intanto lo affermo: Full circle è il disco del 2024, alla faccia dell’imbarazzo mostruoso che sono i Fontaines D.C, perché Scott rispetta il pubblico.

Quattro anni di lavoro in studio e scommetto abbia alle spalle almeno un altro decennio di composizione e arrangiamento. Tutto ciò sa di lascito e omaggio a chi ascolta, di riguardo per chi acquista, oggi delle rarità. Il mosaico sonoro è tappezzato di riferimenti amalgamati in modo profondo, di chi sa suonare e ama ascoltare attorno a sé lasciando sedimentare e proponendo innesti coraggiosi ma funzionanti.

Ho sentito un universo che, nella somma degli addendi, mette le canzoni nella zona dei recenti Styx e Uriah heep, differenziandosi per la chitarra robustissima di Andy che lascia spazi considerevoli a tastiere e alla cura maniacale di voce e cori, tipica del progetto sin dagli albori. In un certo senso, prende l’esperiemnto degli WASP con Ken Hensley e lo alleggerisce, ma la strada è quella di fare cose coraggiose.

Lo stupore è quindi verso chi ha gli attributi di scrivere articoli insulsi senza prendersi la briga di comprendere una proposta. Mi si dia del pazzo: Maroon five, Green day, il duo Fripp-Summers, Nickelback periodo Lange, Magnum…

Ho trovato tutto ciò, con sommo piacere e letizia per una produzione che pesca fra i decenni, in modo professionale e divertente. Un piacere all’ascolto su CD, altro che i modaioli del vinile che spendono cifre assurde spesso senza sentirli e voler comprendere il lavoro fatto dagli artisti.

Le canzoni sono accattivanti e agili, pur essendo mai scontate: dal suono alieno, mezzo Glam e mezzo Crossover di Rising up si passa a un brano che poteva essere di Predator in disguise dei Praying mantis, solo con arrangiamenti che non vanno a pescare nelle solite scale, dove il virtuosismo è la scelta del colore più che velocità o dissonanze; Don’t bring me water è un caleidoscopio che vortica fra il Pop dei primi 2000 e l’hard rock epico dei Wishbone ash.

Il disco si chiude col brano omonimo, una canzone che ispira grandiosità e voglia di riposo, un ossimoro totale che chiarisce ancora una volta il progetto Sweet.

(Tony Paul Bevan Rossi)