Sunny Day Real Estate – Il successo e la fatica

I Sunny Day Real Estate sono i precursori delle emo rock band degli anni 2000. Per un momento sono stati gli astri nascenti della Sub Pop, proprio quando il grunge stava per spararsi in testa e respingere al mittente ciò che solo una generazione prima considerava “la bella vita”, tra pompini, coca, arene piene di folle mostruose e affamate, piscine a forma di chitarra elettrica, limo’s piene di liquidi organici e qualche overdose spettacolare di tanto in tanto.

Ma mentre Kurt ci provò a vedere se quella vita potesse piacergli, visto che con l’uscita di Nevermind si aspettava un salto decisivo in termini di popolarità e di ricchezza, i Sunny Day non ci misero la bocca neanche un momento. Non ne parlo come uno che li conosce da molto, sia chiaro. Li ho scoperti poco tempo fa quando il tipo che ha messo insieme il libro Grunge is Dead, a proposito dei Truly, citò anche loro come potenziali successori e prosecutori del fenomenale sound di Seattle.

Entrambe queste band collassarono nel giro di poco tempo e non si pose nemmeno la questione. I Truly, come ho già scritto in questo pezzo qui, provarono a dar retta alla grossa casa discografica per cui avevano firmato ma si ritrovarono come Lino Banfi cameriere in Vieni avanti cretino, mentre i Sunny Day Real Estate, nome lungo ma che sorprendentemente riesco a ricordare con una certa facilità, puntarono al tempio assoluto dei morti di fame del rock and roll. La Sub Pop era gigantesca per tanti motivi e stava spendendo molti soldi in quel periodo, ma non aveva le fattezze di una major e non le avrebbe mai avute. Diary vendette bene, è tra i primi sette grandi successi dell’etichetta di Seattle più emblematica, ma non più di quanto fecero altri fenomeni passeggeri post-grunge come The Hum, di cui ho scritto invece qui e qui.

E comunque, dopo Diary, che oggi è considerato un classico assoluto del rock indie e la bibbia di tutti gli emo-millennials in circolazione, il gruppo andò in frantumi durante le incisioni di quello che avrebbe dovuto essere il disco della riconferma. The Pink Album, come viene chiamato oggi amichevolmente, per via della copertina tutta rosa, resta una cosa cominciata male e finita con molta fatica. Addirittura alcuni dei testi sono finti, a quanto racconta Jeremy Enigk. Jeremy è il cantante e chitarrista del gruppo, se non lo sapete.

E come molti ricordano a William Goldsmith, il batterista livoroso dei Sunny Day, ogni volta che si sveglia e dichiara al primo magazine che trova quanti problemi abbia causato alla band Dave Grohl, la responsabilità del mancato successo e di una carriera così claudicante (4 dischi in 30 anni e rotti) è solo la loro, senza tirare in ballo nessuno più potente.

Sebbene la band assicuri che oggi sono felici di passare del buon tempo assieme, almeno tre su quattro che erano, nessuno si azzarda a promettere un ritorno in studio. Del resto è sempre stato quello il posto dove si sono inceppati. L’episodio di The Pink Album si è ripetuto infatti al tempo in cui il gruppo tentò di realizzare il quinto album, all’incirca nel 2011, negli studi di proprietà di Grohl.

Secondo Enigk tutto franò irrimediabilmente in quella situazione e i Sunny Day si sciolsero ancora. Goldsmith rimpiange il loro miglior album abortito e tenuto sotto sequestro dal frontman dei Foo Fighters. Poi ritrattò la questione sollevando Dave da certe responsabilità, ma tra William e Grohl ci sono risentimenti sin dal tempo di The Colour And The Shape. Se ne volete sapere di più c’è molta documentazione a riguardo, in giro.

Nonostante la conclamata incapacità di tenuta, i Sunny Day sono uno dei gruppi più fighi che abbia sentito in ambito indie-rock depresso e melenso venuto su dopo Nevermind; tra i pochi a saper scrivere grande musica. Per qualche oscura ragione solo Diary ha colpito così tanto l’immaginario e vi sorprenderà ascoltandolo, quanta roba venuta dopo vi possa ricordare, quanti gruppi abbiano attinto a esso, al punto che quelle 270’000 copie vendute dalla Sub Pop probabilmente lo furono all’80 per cento a coloro che avrebbero formato i gruppi e gruppastri rock americano degli anni 2000.

Stiamo parlando dell’ennesima grande band che non ha raccolto quanto merita? Forse, ma ormai dovreste averlo capito, così come l’ho capito io a forza di articoli e di ricerche approfondite su come andarono le cose a questo o quel gruppo, che la musica è solo una delle varie componenti in grado di restituire a un grande talento, un riconoscimento economico.

Viviamo in un mondo in cui se non fai soldi con quello che proponi sei un fallito: magari sei un grande in ciò che fai, ma se non diventi ricco, qualcosa vuol dire che hai sbagliato o non ti ha detto bene. Anche in chi come me scrive con un ampolloso tono di rimpianto per quei gruppi validissimi che nessuno si è filato, alberga questa retorica capitalistica. Ce l’abbiamo ormai nel sangue, cazzo.

Eppure nel caso dei Sunny Day Real Estate sembra che a loro di tutto questo non sia mai fregato nulla. Erano parte della generazione dei primi anni 90. Non voglio idealizzare band come Guns N Roses, Soundgarden o Alice In Chains; tutti loro sognavano di diventare rockstar, con le belle cose che un traguardo simile avrebbe comportato, ma è palese, in quell’insieme di band, qualcosa non funzionò quando videro arrivare la fama, i dischi d’oro e tutte le cazzate da ricchi alla Gene Simmons. Si ribellarono e andarono a puttane, uno dopo l’altro. Si disintegrarono. E così anche nel loro piccolo, validissimi elementi della progenie successiva all’ultima ondata di rock da stadio, i Sunny Day Real Estate, non ressero a lungo la pressione. Tornati in studio dopo il promettente successo di Diary pare quasi che si accorsero di non voler rifare ancora la stessa cosa. Perché di questo in fondo si tratta.

Non so se fu così, ma dalle cose che dicono ancora oggi, li prese un senso di stanchezza, di noia. Probabilmente si chiesero: ma è tutto qui? Dobbiamo fare la stessa cosa ancora e ancora e avremo di che mangiare per il resto della nostra vita? Affanculo. Volevamo fuggire da tutto e ora ci siamo infilati nell’ennesima trappola meccanica, reiterante, una fottuta ruota di criceto tra le millemila che fanno muovere l’intero sistema.

Pensate a The Hum. Realizzarono anche loro un piccolo grande successo con il brano Stars. Howard Stern si commuoveva a farlo suonare nella sua trasmissione: i ragazzini di tutte le università lo ascoltavano e lo balbettavano sotto una coltre di fameliche stelle lovecraftiane, eppure il gruppo si prese una pausa da tutto, anziché tornare in studio e registrare il loro Black Album. Si erano semplicemente rotti le palle di quella sovraesposizione e dei concerti e concerti fatti per “battere il ferro”.

Immaginate i Metallica che dopo essersi fatti un culo così a incidere And Justice For All nonostante il trauma per la perdita violenta e improvvisa di Cliff Burton e dopo un ennesimo tour sfiancante, invece di richiudersi in studio con il produttore più cool del momento e poi ripartire altri cinque anni in tour in un pianeta ormai diventato troppo piccolo per la loro espansione, avessero detto no grazie, ci siamo rotti il cazzo. Andiamo a pescare con le nostre famiglie oppure, ci sciogliamo e ci buttiamo sul mercato immobiliare. Pazzesco no?

Beh i Metallica sono loro perché hanno perseguito con tanta tenacia quel risultato, e perché niente li fermò tra il 1988 e il 1990. Due anni dopo decine di band invece non vollero saperne di tutto quello schifo. Si fermarono davanti alla morte, davanti alla follia forsennata della promozione per arrivare a una ricchezza che boh. Abbiamo avuto una decade di rinunciatari, di idealisti caduti in depressione, di “non so” come direbbero Gaber e Luperini. Eppure ci lagniamo del fatto che il rock è morto. Cosa lo è? Vedere ancora per decenni dei tizi con una chitarra saltare su un palco davanti a milioni di persone? Ma che muoiano con gli Ac/Dc.

Per gente come Jeremy Enigk era importante la musica e quella ci è rimasta. Sarebbe bello non sporcarla con la poetica del “non ce la fecero ma avrebbero potuto diventare i nuovi Nirvana”. I Sunny Day Real Estate hanno registrato altri due dischi meravigliosi dopo il crollo di Pink Album, ma in pochi ci hanno badato e per fortuna, a parte i disagi mentali di Goldmisth, nessuno ci ha rimesso la vita.

E quei pochi se li sono goduti, il terzo e il quarto album dei SDRE, perché c’è musica notevole sia dentro How It Feels to Be Something On del 1998 che in The Rising Tide del 2000. Sono due passaggi creativi che non hanno molto a che spartire con Diary e questo è un bene. Non hanno il peso di una generazione disagiata sul groppone. Non si tratta di due dischi che tentano un ritorno “alle origini” o che cercano di riprendere quella miracolosa creatività. Se ne sbattono e vanno avanti facendo bene ciò che vogliono fare. Non rappresentano nulla per i sintetizzatori culturali e sociali del giornalismo rock, pronti a tradurre in pillole di qualcosa i cento dischi più qualsiasi cazzo di cosa eccetera eccetera. Sono due album pieni di emotività e di bravura che forse filtreranno tra le incrinature dei vostri cuori ammaccati e ci coleranno dentro un po’ di calendula sonora. Amen.