Come direbbe il filosofo nichilista Heidegger, quando gli Steelheart “furono gettati” nel mondo, era già tardi. Questa è l’opinione diffusa, espressa con rammarico dagli appassionati di hard rock anni 80. Per “già tardi”, s’intende che avrebbero potuto fare grandi cose, se qualche manager potente li avesse scoperti e lanciati almeno un paio di anni prima.
Il debutto omonimo uscì nel 1990 e aveva tutti i requisiti giusti per il successo. Andò bene, ma non quanto avrebbe potuto se…. Già, beh, siamo consapevoli che questi discorsi non valgono nulla. Se e ma… cosa ci fai? Ciò che conta è quel che è stato e quello che è oggi.
Nel caso degli Steelheart, uscendo nel 1990, raccolsero meno di quanto avrebbero potuto (ma sgraffignarono un’ ultima fetta della torta che gruppi come i Jackyl videro portar via da lontano) e con buona pace di tutti, nel 1988 c’erano già state band come gli Skid Row e i Warrant e decine di altre a fare la storia del genere.
Non voglio sminuire la corazzata Matijevic, attenzione, ce l’ho con la sempre più tenace coltre retorica da “beautiful losers” che il vecchio Mick ha egli stesso imparato a sfruttare negli anni recenti, quando ci racconta la sua vita, piena di situazioni degne di un film.
Sebbene l’omonimo e Tangled in Reins (1992) siano due buonissimi prodotti, appaiono entrambi in ritardo rispetto al tempo in cui uscirono, oggi io lo sento chiaramente.
Quando la band tornò col secondo album, erano già successe parecchie cose e non si poteva più contare su pezzi come, Late for the Party, che sul piano lirico rappresenta tutt’ora un emblematico manifesto per gli Steelheart, ma su quello espressamente musicale, la canzone è il solito mix di goliardia, glamour, edonismo e via così che dopo Nevermind appariva cringe, ancora prima che qualche sbarbino inventasse questo termine per dire imbarazzante da far sudare.
Il sound di Tangled e le pur belle canzoni che ci sono dentro (Electric Love Child, Steelheart, Mama Don’t You Cry) erano stantie nel 1992 e non concedevano speranza alla band di sopravvivere al nuovo mercato in drastica evoluzione. Per riuscirci c’era solo una carta da giocare ed era fuori dalla proposta creativa del gruppo: vale a dire la voce di Matijevic stesso.
CAPITOLO 2 – IL LAMENTO DA CINQUE OTTAVE DI UN UOMO ABBANDONATO
Negli standard del genere hard rock & heavy metal, le corde vocali del Michael Matijevic dei primi anni 90 raggiungevano altezze fenomenali.
Da solo poteva garantire, nella stagione del grunge, al nome degli Steelheart ancora quel minuto di attenzione che ogni tipo di pubblico ha sempre concesso ai fenomeni di natura; anche oggi che i livelli di attenzione sono spesso più corti di un video su Tik Tok, chiunque si soffermerebbe sulla clip del ritornello di She’s Gone cantata in quel modo.
I dieci minuti e rotti di unplugged degli Steelheart per MTV, nel 1992 rappresentano, ora che la Storia la si studia più su You Tube che nei libri, un documento impressionante associato al nome di questo vetusto gruppo hair metal che nessuno conosce più.
Chissà cosa pensò Matijevic mentre riprendeva fiato e sorrideva alle facce entusiaste della claque catodica. Forse sperava che le cose potessero proseguire nonostante le vendite in calo dei dischi e i buchi sempre più larghi in platea. Magari si disse che almeno per gli Steelheart, fin quando quella potenza e quell’estensione vocale non l’avessero abbandonato, fin quando la salute non l’avesse tradito, sarebbe andata bene; perché lui era gli Steelheart e su questo non aveva dubbi.
Nonostante, come è noto, pochi mesi dopo tutto andò a puttane per via di un incidente stupido che quasi costò la vita proprio a Matijevic, se questi erano i suoi pensieri dopo l’unplugged, allora non si era sbagliato su nulla. Le cose non finirono lì; non per lui. Ci volle un periodo di tribolazione, certo, una stagione purgatoriale, ma alla fine gli Steelheart ripartirono e tirarono avanti.
Non la formazione conosciuta e ammirata fino a quel punto. Dopo l’incidente in cui rischiò di rimanerci secco, fu Matijevic a proseguire la carriera, bello e dannato. Per riuscirci non sarebbe forse bastata la sua voce e il suo carisma. Era stato necessario uccidere egli stesso i vecchi Steelheart, o almeno così pare che la pensino gli ex membri storici; di esserci riuscito proprio grazie a quell’incidente di cui tutti seguitano a profondere compassione e stupore e che invece fu quasi cercato, per molti versi auspicato dopo una sera come tante, troppe in cui per ammissione dello stesso frontman, qualcosa di nuovo doveva accadere, che scuotesse la situazione, lanciasse un messaggio, producesse un segno.
Per Matijevic da dopo l’incidente, è iniziata una nuova storia, molto diversa rispetto agli altri del gruppo, spariti nel nulla. E per fortuna è ancora in giro a raccontare la sua versione, anche perché ormai è il solo a tener su il marchio Steelheart. Come è giusto che sia, direbbe lui, perché quella voce e quella potenza naturale sono intatte e rappresentano il cuore energico di quel monicker. E con esse, fin quando non lo abbandoneranno, ci sarà un presente e un futuro; basta lui a garantirlo. Gli Steelheart sono e saranno sempre Matijevic. Punto.
CAPITOLO 3 – BALLARE NEL FUOCO
Ballando nel fuoco mentre il ghiaccio si sta sciogliendo
Si tiene troppo stretto e non riesce a lasciarlo andare
Il calore sta arrivando, poteva vederlo nei suoi occhi
Ballando nel fuoco. Bum!
Vorrei soffermarmi sull’incidente, accaduto durante quel concerto degli Steelheart di spalla agli Slaughter. A sentire Matijevic le cose stavano andando benino in quel tour, anche se fatico a crederlo e mi risulta diversamente. La data non era stata programmata, era un’occasione offerta al gruppo all’improvviso e che su insistenza del loro manager, decisero di cogliere. E la sera prima dell’esibizione su quel palco, mentre i musicisti erano da poco sistemati sul tourbus, con l’autista che si accingeva a partire verso la successiva location, Michael si voltò a guardare un momento i suoi compagni e si sentì deluso da ciò che vide. Si accorse che erano tutti sballati, chi per aver bevuto troppo o chi per altro, tutti fuori come cammelli. E gli prese una gran tristezza.
Cosa stava succedendo, si domandò. Perché erano tutti così disperati da doversi intossicare di schifezze e fuggire da una realtà che avevano desiderato, da un sogno per cui avevano combattuto duramente, allo scopo di viverlo anche un solo giorno?
Pensò allora di scuotere un po’ le cose. Tornò a guardare avanti sul sedile e decise che la sera dopo avrebbe fatto in modo che qualcosa accadesse. Immaginò di salire sul palco e a un certo punto fare un gesto diverso che sorprendesse tutti, bum, in particolare i suoi stessi compagni del gruppo, rompendo così la loro apatia, restituendo autenticità a quella specie di mortifera routine fatta di azioni sempre uguali, di scalette ripetute, di movenze calcolate e di droghe pesanti ingurgitate per affrontarla.
E così, verso la fine dell’esibizione, la sera successiva, durante il brano Dancin’ in the Fire, ecco che Michael senza dire niente a nessuno, si arrampicò su una di quelle torri di luci ai lati del palco, facendo un po’ il verso a Eddie Vedder e i Pearl Jam. Peccato che la struttura non fosse stata fissata al suolo dai tecnici, del resto non era lì a fungere da Empire State Building per l’ennesimo King Kong del rock and roll. Così nel giro di pochi secondi, quella gran massa di ferro e fili elettrici, crollò addosso a Matjievic. Bum, appunto.
I medici non si spiegano come abbia fatto, dopo esser finito sotto tutto quel peso e per le gravi ferite riportate, a rialzarsi e uscire di scena camminando sulle proprie gambe.
Dal video su Youtube si vede che poco dopo la caduta il bassista James Ward, invece di interrompere l’esibizione per rivolgersi a Matjievic in terra, continua a muoversi come se la musica non sia stata interrotta, trasformando la trance ritmica del suo corpo in una furiosa azione distruttiva verso tutto ciò che lo circonda. Scaglia lo strumento in terra, lo rivolge come una clava addosso alla parete scenografica di amplificatori finti e poi va via da lì, ignorando il povero Matijevic.
Di seguito Ward riferì che a quel punto lui pensava che Michael fosse morto e quindi non era riuscito a fare altro a parte sbroccare in quel modo e scappare da quel palco.
CAPITOLO 3 PARTE SECONDA – DIMMI BAMBINA…
Dimmi bimba, mi amerai ancora quando sarò diventato vecchio?
Il tuo tocco su di me sarà ancora così delicato?
Perché il tuo cuore significa troppo per me
e senza di te, bimba, io sono perso, morto…
(Ma lei se ne andò e lo lasciò in fin di vita in un letto d’ospedale)
(Versi tratti dal brano All Your Love)
Da quel momento il già citato brano She’s Gone, cavallo di battaglia e prova del fuoco per Matijevic, divenne qualcosa di più profondo e complicato da cantare, non tanto per l’estensione sbalorditiva che richiede nella seconda parte, ma per il carico emotivo che nel tempo la vita gli ha depositato su quel giro di note. Dopo anni, il frontman degli Steelheart, raccontando dei lunghi mesi passati in ospedale e della faticosa riabilitazione, ha puntualizzato che non era stato tanto il dolore fisico sotto le lenzuola a opprimerlo, ma il vuoto intorno a lui: nessun membro del gruppo era mai andato a trovarlo durante la convalescenza, né lo chiamò per sentire come stava nei mesi e gli anni successivi. Scomparvero nell’ordine anche il manager e la sua compagna, la donna che sperava restasse accanto a lui in quel momento critico. But she’s Gone. They’s All Gone…
“Davvero nessuno del gruppo ti cercò”, continuano a domandargli tutti quanti. “Per la verità, uno sì”, dice Michael, “si è fatto vivo il batterista John Fowler, ma solo per domandarmi se sapevo quando l’etichetta avrebbe pagato le ultime royalties”.
CAPITOLO 4 – MORIAMO TUTTI GIOVANI

Non finì qui. Nonostante ci fossero state delle negligenze da parte degli organizzatori dello show, Matijevic era talmente fuori di zucca dopo l’incidente da non essere in grado di firmare alcun documento e permettere ai suoi avvocati di procedere a una qualche azione. Non ebbe alcun soldo di risarcimento per quanto accaduto. Ma almeno riguadagnò la salute. Ovvio che un fatto simile possa suscitare smarrimento e molta ammirazione, per la forza con cui l’uomo ha recuperato ed è ripartito con la propria vita, contro tutto e mollato da tutti; ma non correte a rapide conclusioni come ho fatto io, la storia ha più lati, come dicono gli americani. Il disco che pubblicò nel 1996, Wait, andò bene, ma uscì solo in Giappone, dove il gruppo era ancora molto seguito. Nel resto del mondo nessuno se ne accorse, ma che importa: gli Steelheart erano di nuovo in giro.
Wait è un album prevedibilmente diverso da Tangled e l’omonimo. Non solo perché non era più la stessa band, ma anche perché il rock melodico era tutto un altro mondo dall’anno dell’incidente.
Il percorso che Matijevic aveva fatto per rimettersi in piedi e accettare di essere stato mollato da tutti nel momento di maggior bisogno, doveva averlo spinto a lavorare tanto su se stesso, magari dedicandosi a percorsi di supporto emotivo e di pratiche spirituali che potessero lenire il dolore e incanalare quelle preziose energie, non nei cannoni della rabbia auto-distruttiva, ma nella creatività e nella rinascita della propria carriera artistica.
E infatti l’album Wait è pieno di pezzi inti-mistici, zeppeliniani, in cui lui riflette sul presente, sul vivere e il morire, l’amore, la voglia di vivere, la divinità del tutto… Non ci sono canzoni indimenticabili (a parte una) ma è tutta buona musica, sa di genuino.
Il problema è che in apertura è stata messa proprio We All Die Young e dopo quella, tutto il resto non può essere che in discesa.
Questo pezzo è l’ancora a cui Matijevic si è aggrappato per uscire da quel letto d’ospedale e riorganizzare il proprio ritorno sulle scene. Un certo Kenny Kanowski, un chitarrista, si era avvicinato a lui in quel periodo disperato e gli aveva proposto di scrivere musica insieme. Tra i due, nel pieno della convalescenza di Michael, era venuta fuori quella canzone.
E anche se passò quasi inosservata nel 1996, We All Die Young aveva qualcosa in serbo per il futuro di Matjievic; bisognava solo aspettare portando pazienza.
Ve lo ricordate il film Rock Star, con Mark Wahlberg e Jennifer Aniston? Parla di un gruppo, gli Steel Dragon e dell’opportunità incredibile che un fan ha di diventare il loro cantante dopo che lo storico frontman della band li ha abbandonati. Si basa sulla storia di Tim Ripper Owen e i Judas Priest, è risaputo, ma non è interessante per questo.
Quel film non mi è mai parso granché, date le premesse, però non sapevo che fu l’occasione del rilancio di Michael Matijevic.
Sì perché la voce di Wahlberg è la sua e il pezzo più fico del film, presente in una delle scene clou, è We All Die Young. Molti pensano che sia un brano scritto appositamente per quella colonna sonora ma non è così.
I produttori decisero, per interpretare la band degli Steel Dragon, di ingaggiare musicisti. Misero insieme un super-gruppo tipico coinvolgendo i soliti transfughi di razza: Zakk Wylde alla chitarra, Jeff Pilson dei Dokken al basso e Jason Bonham alla batteria.
L’idea non era tutta qui. La produzione aveva domandato a questi musicisti di scrivere e suonare delle canzoni originali che fossero le hit degli Steel Dragon nel film. Michael, approfittando della situazione, pensò di offrire oltre alla propria voce, l’intero album Wait, semi-inedito. Gli autori ascoltarono We All Die Young e ne ne invaghirono; era perfetta per una scena importante che dovevano musicare.
La formazione degli Steel Dragon riarrangiò quel brano, che data la presenza di Wylde uscì con delle chitarre molto più pesanti rispetto alla versione su Wait. Il gruppo aggiunse come d’accordo un’altra manciata di pezzi, e alcuni, come Blood Pollution e Wasted Generation, erano niente male. Stiamo parlando di brani che nel film dovevano fungere da “classici” degli Steel Dragon, una band esistente solo in quel micromondo immaginario, ma presi fuori da quel contesto risultano discreti.
Matijevic, ripensando a quel momento e a tutto ciò che avrebbe potuto capitare dopo l’uscita del film, con l’enorme budget promozionale messo a disposizione per lanciare in radio la nuova versione degli Steel Dragon di We All Die Young, magari facendo partire in tour il gruppo in toto, non riesce ancora a darsi pace.
Pochi giorni dopo la pubblicazione del singolo, con Rock Star da poco nelle sale, ci fu l’attentato alle Torri Gemelle. Il presidente Bush Jr. per i mesi successivi vietò che si trasmettessero in radio canzoni con determinate parole, che dato il momento, dichiarò inopportune. Tra di esse c’era “die”.
Sappiamo anche come andò il film Rock Star al botteghino; piuttosto male. Nel tempo non è diventato un cult movie. Non è brutto ma sa, oggi come ieri, di occasione mancata. Ben altri responsi ottenne qualche anno dopo il musical Rock Of Ages a Broadway, poi film dai grandi incassi con Tom Cruise.
Nonostante tutto, nel tempo Matijevic ha conservato alcune delle canzoni degli Steel Dragon e le ha inserite con disinvoltura nel repertorio degli Steelheart. Sogna ancora di “rimettere insieme” quella “non-band” e fare qualche concerto assieme, prima o poi. Per certi versi Zakk Wylde ha finito per partecipare a un reunion tour di un’altra non-band: i Pantera.
Tra le occasioni d’oro mancate di Michael, a parte il flop di Rock Star, va menzionata la candidatura come sostituto di Ian Astbury nei rinati Doors, ma pure lì non gli disse bene. E nemmeno il suo tentativo di lanciarsi in una nuova carriera come autore e intrattenitore di musica dance (sob) gli riuscì. Insomma, nonostante gli sforzi di reinventarsi senza rimanere attaccato al passato, il mondo di opportunità lavorative si è rivelato ampio di possibilità non oltre l’ombra provocata dall’insegna Steelheart.
CAPITOLO 5 – ACCIAIO NELLA TORMENTA
Dal 1996 a oggi, Matijevic è riuscito a pubblicare un paio di nuovi dischi con il nome Steelheart: Good 2B Alive nel 2008 e Through Worlds of Stardust nel 2017 (questo uscito per Frontiers).
Si tratta di due lavori molto interessanti, con diverse canzoni validissime (Buried Unkind, Lips Of Rain), ma che nessuno si è filato. Per l’ultimo album in particolare, il frontman ha raccolto l’insuccesso con grande amarezza. Rinominatosi nel mentre Miljenko Matijevic, come all’anagrafe, visto che è di famiglia croata, si è dichiarato tutt’altro che sconfitto ma ha ammesso di essersi sentito deluso dal supporto quasi nullo che le etichette, in particolare quella italiana, hanno concretamente manifestato per la promozione del suo lavoro. L’ultima etichetta con cui ha avuto a che fare, dichiara lo stesso Michael a un sito gli ha messo a disposizione una roba come 600 dollari, cosa che l’ha spinto ad aprire una label personale e occuparsi di tutto quanto lui per il futuro degli Steelheart; un futuro difficile per chi fa musica in generale, ma ancora pieno di traguardi da raggiungere, di sorprese per i fan e blablablah.
Nonostante le vicissitudini, Matijevic ha tirato su, in poco più di cinque dischi e mezzo (considerando il fake album degli Steel Dragon) un repertorio di tutto rispetto e questa sua rendita garantisce una scaletta fantastica dal vivo, anche grazie alle sue capacità canore, ancora fuori dal comune e che nella sfortuna di molti anni trascorsi al palo, non sono state logorate da infiniti tour.
Ma di tutto questo poco mi importa. Ciò che mi preme trattare ancora prima di chiudere è la faccenda dell’incidente e quell’abbandono collettivo intorno a un uomo quasi morto.
Come è stato possibile che l’abbiano lasciato tutti solo? Ho fatto delle ricerche, ho letto tutte le interviste rilasciate da Matijevic e lui stesso non riesce a darsi delle risposte. Confesso di aver pensato a un certo punto, che probabilmente, se è capitato questo, la colpa era stata pure un po’ sua.
Gli ex membri degli Steelheart non hanno più fatto dichiarazioni da prima dell’incidente, ma spulciando i commenti sotto i video di you tube, in particolare quello dell’unplugged e quello dedicato all’incidente, filmato amatorialmente con una telecamera da uno spettatore, ho individuato un po’ di informazioni che, per carità, sono da prendere con le molle, ma che farebbero capire alcune cose su Matijevic che lui si guarda bene dal dire. Vediamo nello specifico cosa è accaduto agli altri membri della formazione originale e che cosa hanno da dire riguardo la conclusione terribile dei vecchi Steelheart.
Chris Risola, il chitarra solista è il solo ex che Matijevic ha convinto a tornare con il gruppo dopo la ripartenza di Wait. Avvenne per un breve periodo dal vivo, in qualità di turnista. Dopo è scomparso ancora e da anni non si sa più nulla, a parte che ha avuto un ictus.
Jimmy Ward, il bassista e il solo co-firmatario assieme al cantante di quasi tutte le canzoni dei primi due album della band, quello che ha spaccato il palco mentre il cantante era in terra schiacciato dal peso della torretta. Ha fatto sapere a chiunque glielo abbia domandato da allora che non vuole mai più avere nulla a che fare con Mike, per nessuna ragione al mondo. Continua a ripetere quanto lo odi dal profondo, pure nei momenti in cui crede di essere lontano dalle orecchie di chiunque.
Frank DiCostanzo, l’altro chitarrista degli Steelheart originali, sembra che abbia avuto anche lui problemi di salute e che sia ormai impegnato nel ruolo di papà. Dice di non provare da anni alcun interesse per l’eredità degli Steelheart e di non nutrire la minima curiosità nei riguardi di Matijevic, vivo o morto che sia.
John Fowler, il batterista, il solo che, a detta di Mike si fece vivo durante la convalescenza post-incidente (ma solo per parlare di soldi), è morto nel 2008. Alcuni suoi buoni amici però, riportano che prima di spirare si sia “pulito il culo con una lettera che Mike gli aveva inviato chiedendogli di trasferire a lui tutti i diritti d’autore degli Steelheart”.
Insomma, dire, secondo queste fonti non ufficiali, che tutti gli ex Steelheart, provino o abbiano provato un certo risentimento nei confronti di Matiijevic, pare un eufemismo. E spiegherebbe come mai, pur in condizioni di salute pessime, gli abbiano voltato tutti le spalle; compresa la fidanzata.
Sempre su You Tube ho trovato un commento di un amico di Chris Risola, il quale ricorda che ai vecchi tempi degli Steelheart, quando ancora si chiamavano Red Alert, aveva preferito non presentare Mike Matijevic a quel suo amico, perché era sì un bravo cantante ma era anche “una persona terribile”.
Del resto un cuore d’acciaio non ha pietà per nessuno, va dritto per la propria strada, camminando su tutto, cadaveri compresi.