Forse per qualcuno la cosa non è molto chiara (e nemmeno gliene frega) ma vorrei specificare che essere uno che studia ed esercita un giudizio critico su una determinata forma d’arte, non vuol dire godersi quella forma d’arte. Il divertimento è come sospeso. Torna in modo sottile e molto piacevole dopo aver studiato, scritto e compreso qualcosa da un disco, un libro, un film o quel che volete. Nel caso del metal, io non sento un album per il semplice gusto di sentirlo, non accade da molti anni. Lo ascolto sì, pure se non ne sono attratto a livello epidermico, lo approfondisco, ci medito sopra e poi, attraverso lo strumento della scrittura, lo schiudo a me stesso, sviluppando riflessioni, riesumando ricordi sepolti o semplicemente descrivendo visioni folli e assurde che mi si parano nella mente durante l’esercizio della scrittura. Capisco che sembri una cosa assurda e non tutti possono capirla. Probabilmente molti di voi cercano ciò che possa piacergli, quando leggono una recensione, scorrono una playlist o vanno a ficcanasare tra vecchi vinili su una bancarella mentre io mi complico solo la vita.
Nel mio caso ogni cosa può essere oggetto del mio, non vorrei definirlo lavoro anche se a volte i soldi arrivano, diciamo che è più una pratica interiore di cui rendo conto al lettore. Sono una specie di giornalista che registra, racconta, descrive. Allo stesso tempo sono un valutatore, esprimo un giudizio che potete condividere o rigettare e infine sono un inviato da un posto dove pochi riescono ad andare, da lì porto qualcosa che non c’è di qua, che sia soltanto una serie di sproloqui sulla musica, la vita, l’arte in generale o una profezia sulla fine dei tempi.
Quindi se vi dico che l’ultimo dei Borknagar è un grande album, non vuol dire che sono a cazzo dritto, saltello per le mie stanze e sospiro profondamente sul futuro del metal. Non c’è la gioia e l’entusiasmo dell’appassionato puro. C’è la felice constatazione di chi osserva un fenomeno e ne rivela la bellezza. Dico quindi che quel disco, nello specifico Fall, è un esemplare evocativo per la mia scrittura, un nutriente concentrato di creatività genuina, di profondità umana e uno stimolatore di visioni verso le quali remare con voi.
Probabilmente la sto facendo troppo grossa e complicata e non mi sono neanche spiegato ma andiamo avanti.
I Borknagar sono uno di quei nomi che, tornando al discorso già fatto su Chelsea Wolfe e su Ihsahn, quando esce un nuovo album, qualcosa dentro di me inizia a gravarmi sul cuore, perché sarà sicuramente interessante, non banale, ricco e arricchente ma quindi molto, molto impegnativo.
Dovrò approcciarmi con grande apertura mentale, carpire ogni dettaglio e studiare, studiare, studiare. Sono artisti che ti danno tanto e ti chiedono il doppio, se sei uno come me, che ascolta per scrivere, scrive per ascoltarsi dentro e poi riferire cosa ha visto in quella che Burroughs definiva Interzona.
I Borknagar non fanno mai dischi brutti. Possono essere talvolta eccellenti, ma non scendono mai sotto un livello che la stragrande maggioranza delle band metal di oggi non toccano in una intera carriera di decennali discografie tutte uguali a qualcosa che non hanno neanche creato in primis.
Eppure siamo talmente abituati a questa loro eccellenza da non farci più neanche troppo caso. Può succedere che nelle classifiche di fine anno siano presenti ovunque, ma che non si parli di loro in altre occasioni. Esce il disco, si festeggia con un super-voto e poi si passa a tutto il resto, che è meno eccitante, meno intrigante, meno in tutto ma anche molto più maneggevole e collettivamente alla portata.
Ihsahn è un altro esemplare in questo senso. Ogni cosa che realizza vince a man bassa sulla maggioranza di quello che c’è in giro. ma a parte celebrarlo nella rituale zona promozionale, tutte le webzines, le riviste, non si occupano mai di lui con un approfondimento fuori da certe tempistiche commerciali e non si arrischiano ad approfondire, forse per paura di non essere all’altezza e non venirne più fuori.
Inoltre la posta in palio è misera: probabilmente tutti sono d’accordo che i Borknagar e Ihsahn siano grandiosi ma non c’è bisogno di farla tanto lunga. Un articolo speciale che ne ripercorra i lunghi e molto proficui anni compositivi riceverebbe le stesse visualizzazioni e letture di un contatore in una casa abbandonata a ferragosto. Molto meglio i dieci dischi dei Metal Church dal migliore al peggiore.
I Borknagar di Fall sono enormi. Riescono a utilizzare sonorità progressive anni 70, archi elettrici o tastiere (suonate da Lazare) senza puntare alla nostalgia, lanciano sulla folla le solite pasture, tra sgrullate black e riffoni dispari da prog metal ma non lo fanno mai senza una precisa, autentica cazzo di ragione, senza una sincera necessità. Li sentite che sono sinceri, non stanno li a fare la maniera, a timbrare il cartellino e non campano di rendita sull’otto politico che tutti sono pronti a dargli senza neanche perdere tempo a sentire cos’hanno ancora da menare, dopo più di vent’anni di grandi album senza un pubblico, senza un mondo in grado di farne tesoro.
La ricostruzione di un tempo suggestivo e ormai perduto del passato rock non è ciò che avviene in Fall. Inseriscono viscose sonorità che sono come ganci sulle carni della nostra infanzia e pre-infanzia ma non stanno guardando indietro. Puntano dentro voi, le vostre pagine più antiche, capite?
Un disco dei Borknagar punta sempre le montagne e catapulta anche noi, oltre quei picchi, se vogliamo. Usano tutto quello di cui hanno bisogno, con un’autorevolezza che non ha nulla da chiedere ai padri fondatori. Tracciarono nuove coordinate su vecchie carte geografiche ormai sgualcite fino a non leggerle più, per l’abuso che se ne è fatto negli anni.
The Wild Lingers, Nordic Anthem e tutte le altre composizioni parlano di ricordi ancora da vivere. E c’è una potenza nei viaggi sollecitati dalle combinazioni melodiche di Vortex, che non tutti hanno muscoli abbastanza elastici e robusti per farli, senza spezzarsi qualcosa nel tragitto.
Fall non è una corsetta sul fango, come tutta la grande musica richiede sforzo, fatica. Non sto dicendo che ci voglia tempo per capirlo e per farselo piacere. Questo si diceva spesso delle uscite anni 90, ricordate? No, la musica metal ormai è diventata una cosa talmente derivativa che ci mettiamo un paio d’ascolti a esaurire qualsiasi mistero. Tutto è abbondantemente digerito e riproposto in una educata e liofilizzata pappetta della nostalgia e dell’appartenenza al rispettivo cenacolo.
Fall dei Borknagar è maestoso, ti avvince da subito, è istantanea bellezza che potrete carpire e godere al primo ascolto, ma come una veduta terribile e vertiginosa fuori dalla finestrella della vostra esistenza, sarete abbastanza forti da continuare ad affrontarla, invece di volgere lo sguardo e tornare al caminetto scoppiettante e fingere che là fuori sia solo… là fuori? Sarete inoltre abbastanza abili interiormente da non atrofizzare la vista davanti a un simile spettacolo? Riuscirete a non perdere quel senso di meraviglia e di primordio che suona e risuona a ogni ascolto?
Non datemi dell’esaltato. Siete voi i morti dentro. Ma visti i miei vaneggiamenti, capirete che se vengo a sapere che c’è un nuovo Borknagar all’orizzonte, mi ci vuole un bel po’ prima di decidermi a farci i conti.