The Return Of The Living Dead 3 – Amore, morte e lamette

C’era una cosa che mi faceva impazzire (in senso buono) di Brian Yuzna. Lui era probabilmente uno dei produttori e registi indipendenti più innovativi e brillanti dei primi anni 90, ma insieme a capolavori come Society o Progeny, se ne usciva con roba sulla carta abbastanza scadente, tipo il quarto capitolo di Silent Night, Deadly Night e il terzo della saga di The Return Of The Living Dead. Voglio dire, erano saghe (o franchising, come si direbbe oggi) non inventati da lui, come Re-Animator di cui diresse il secondo e terzo capitolo. Un autore così grande si abbassava ad accettare progetti così biechi, come un umile mestierante di seconda fascia. Ma c’era una ragione, sapete, a parte i soldi.

Beh, ok. Il quarto (e per ora ultimo) Silent Night, Deadly Night, che vidi molti anni fa in versione originale senza sottotitolo, non mi impressionò. Intanto non c’era neanche un Babbo Natale assassino e poi aveva una trama quasi inesistente. Però ricordo l’impressione che mi fece The Return Of The Living Dead 3 e su quello vorrei tornare oggi.

Tenete presente che nello stesso anno, il 1993, Yuzna aveva firmato un assoluto capolavoro lovecraftiano, vale a dire l’episodio finale del trittico Necronomicon, girato assieme a un giovane Christophe Gans prima che diventasse celebre per Il patto dei lupi e Shūsuke Kaneko, che poi girò centinaia di altre cose, tra cui la trasposizione filmica di Death Note.

Yuzna surclassò questi comprimari con un pezzo di eccellenza orrorifica, che vi consiglio di recuperare. E mentre dimostrava di essere probabilmente lui il più grande regista lovecraftiano di sempre, faceva pure The Return Of The Living Dead 3.

La serie di film avviata da Dan O’Bannon nel 1985, al tempo mi era simpatica ma non è che l’amassi. Era una roba derivata da Romero, caciarona, con effetti speciali terribili e un andazzo da commedia demenziale che nel secondo episodio raggiungeva livelli da calci nel culo. Eppure ecco il grande Brian che rilevava il franchising e decideva di fare un terzo capitolo serio. Serio, capite? Niente battute in coda a qualche siparietto splat, niente personaggi slap-stick che saltano dentro e fuori dalle tombe, ma una storia drammatica, romantica e con risvolti decisamente tragici.

Con gli anni ho scoperto che la scelta di Yuzna di fare sequel da filoni stagionati e in momenti di bassa resa, era una vera e propria strategia. Intanto erano soldi facili sia per lavorare che per mangiare, poi bastava chiedere ai produttori: cosa volete che tenga degli episodi precedenti? Loro dicevano due o tre cose e il resto era tutta carta bianca per inventare il proprio film libero, creativo e fittamente autoriale.

Nel caso di Silent Night, probabilmente i produttori gli avranno imposto giusto di ambientare la storia durante le festività natalizie, non necessariamente attorno alle prodezze di un serial killer sciroccato con la faccenda di Santa Clause. E Yuzna così fece. Peccato che venne uno schifo, ma per The Return Of The Livint Dead 3 le cose andarono decisamente meglio o almeno così ricordavo. C’era un buon budget, un ritorno economico molto promettente, nonostante fossero i primi anni 90 e già il remake de La notte dei morti viventi diretto da Tom Savini non fosse andato molto bene con gli incassi.

I produttori misero solo una condizione: tieni il Trioxin, vale a dire il gas che rianima i cadaveri e poi… assolutamente i morti devono continuare a nutrirsi di cervello umano. Per Yuzna fu quella la vera sfida perché di tutte le cose che aveva definito O’Bannon nel primo capitolo, quella era la più scema. Però solo in apparenza, in realtà sarebbe stata la chiave per uscire da quell’ennesimo casino produttivo in cui Yuzna rischiava di mandare all’aria la propria carriera. Il dolore della carne da morti.

Rivedendolo dopo molti anni ho capito che The Return Of The Living Dead 1, quello di O’Bannon, è un piccolo e grande film. Non si tratta di una commedia di pessimo gusto con gli zombi, come mi era parso anni fa. Oltre a mescolare in modo interessantissimo la cultura punk e psychobilly degli anni 80 con l’estetica horror di Romero, il film riesce a far ridere e a spaventare insieme. C’è un momento in particolare che resta tra i più emblematici degli anni 80 e che trasforma la trovata dei divoratori di cervello, così camp e serie Z, in qualcosa di più profondo e difficile da digerire.

A un certo punto una morta vivente… o meglio mezza morta vivente, visto che è senza gambe e con le budella tutte in giro, ai protagonisti che le domandano perché desideri tanto il cervello dei vivi, lei risponde… sì perché i morti di O’Bannon parlano e corrono, dicevo, lei risponde che “la morte è uno schifo, è un dolore continuo a cui solo qualcosa che è nel cervello dei viventi, ci offre un temporaneo sollievo”.

Boom. Non c’è niente da ridere. La morte è dolore, non insensibilità fisica. Gli zombi di Romero ricevono pallottole in pancia e continuano a camminare indifferenti, finché un proiettile non gli centri il cranio. O’Bannon decise che non potevano morire in alcun modo ma che avrebbero sofferto tantissimo.

Ecco quindi che un’idea scema (dammi cebello, vole cebellooo!) si trasformò in una tosta metafora sulla velenosa dipendenza dalle droghe. Anche il concept di base, il trioxin usato per avvelenare le piantagioni di marijuana e spazzare via il fenomeno hippie nella Stagione dell’amore e poi rivelatasi un rianimatore fenomenale di cadaveri, ha una relazione con le droghe e con la politica, ma qui andiamo più sul metafisico e pungoliamo lo spettatore nei recessi profondi dove sguazza l’orrore vero.

La morte è dolorosa. Molto dolorosa. Gli zombi sono mossi non dalla fame ma da un bisogno disperato di placarlo ingurgitando analgesici che si trovano nel cranio dei viventi. Non c’è niente da ridere se la mettiamo così, no?

Il discorso sul dolore è poi sviluppato da Yuzna in modo davvero geniale. La protagonista che si trasforma in zombie è dedita all’autolesionismo già da viva. Negli anni 90 non ci sono più gli hippie e nemmeno i ragazzini sballati con la passione per l’heavy metal e le feste fighe. C’è un tipo di musica ribelle ma più introversa, triste. Sul muro della cameretta ci trovate i Life Sex & Death, non i Ratt. E la pin-up dell’horror degli anni 90 è sexy, promiscua ma anche molto tormentata e con un passatempo segreto che le allevia l’angoscia e la fa sentire viva.

Ecco il punto, il dolore per sentirsi vivi quando lo si è ancora. E il dolore aumenta quando si è zombi ed è la molla che fa muovere i morti viventi. Lei è la protagonista assoluta di The Return Of The Living Dead 3 e uno dei volti emblematici del cinema di Yuzna, Melinda Clarke. Indimenticabile quando esce fuori con tutte “le schifezze in faccia” direbbe Vince Vega ma anche in ogni centimetro del resto del suo corpo in decomposizione.

Non vi dico che The Return Of The Living Dead 3 sia un gran film. Per la verità, come ho rivalutato il primo, ho trovato davvero deludente il terzo, rispetto a come me lo ricordavo. Però è sempre un buon Yuzna. Gli zombi non sono la parte principale della storia. Lui poi spiegò a Paolo Zelati nel libro intervista American Nightmares – Conversazioni con i maestri del New Horror Americano (Edizioni Profondo Rosso) che al termine di Re-Animator 2 (il cui vero titolo è Bride Of Re-Animator) Yuzna si sentì un po’ frustrato perché l’idea della donna-zombi innamorata e del rapporto amore-repulsione con il dottor Dan Can (Bruce Abbott) avrebbe voluto svilupparlo di più, ma non c’era stato tempo e si era risolto solo nell’ultima mezz’ora.

Così ripartì da quell’idea, incentrando l’intero film su questa relazione tra la vita e la morte, in cui la ragazza è un mostro, lui l’ama e la desidera, ma via via è costretto a rinunciare a lei o passare dall’altra parte. Il finale è molto death metal, non c’è che dire.

Se vi va, nell’archivio sdangher abbiamo una lunga intervista in due parti che Brian Yuzna concesse a Sdangher quasi dieci anni fa. Cliccate qui per la prima parte e qui per la seconda… o pure andate a farvi fottere.