I Big/Brave e la musica suggestionabile

Speravo di poter scrivere che il nuovo album dei Big/Brave, A Chaos Of Flowers, fosse uno dei dischi più suggestivi e convincenti del 2024 (o degli ultimi anni, vedete voi) in una maniacale tendenza a catalogare i dischi dentro sacche temporale e decretarne l’eccellenza comparandoli con quanto esce nel breve periodo, visione quantomeno parziale e fottutamente arbitraria, a cui non sono immune neanche io. Ebbene dicevo, avrei voluto gridare una roba tipo “disco più ganzo del 2024!”… ma non posso farlo.

I Big/Brave mi hanno decisamente sorpreso e sedotto qualche mese fa, quando per il sito su cui scrivo E VENGO PAGATO PER FARLO, scrissi un articolo intorno al singolo d’assaggio I Felt A Funeral. Trovo ancora questo brano uno dei più riusciti del disco e dell’anno (aridajie) ma non sono altrettanto entusiasta del resto di A Chaos Of Flowers.

Devo confessarvi che mi sento generalmente a disagio con un tipo di musica definito drone/Sludge/Post Metal. Sono etichette che in sostanza mi dicono, per esperienza, che mi farò due palle così e che non avrò la forza o la certezza di poterlo neanche ammettere.

Cerco di essere più schietto ancora. Ci sono versanti della musica heavy che ormai sprofondano in una specie di impressionismo estremo. Certi dischi sono l’equivalente di paesaggi macchiaioli, di nebulose paludi di colori che, a una certa distanza possono farci credere di vedere uno scorcio industriale o roba del genere ma che in buona sostanza ci stanno gettando manciate di nulla nelle orecchie.

Nello sludge/drone/vattelappesca metal non c’è un vero e proprio punto di riferimento. Le chitarre rumoreggiano per due minuti? Una voce brutallara bercia versi esistenzialisti? Una batteria simula un motore di un’auto che non vuole saperne di partire? Ecco, questo brano è un brano, inizia, finisce, mostra una certa intensità generale e poi ne comincia un altro uguale. Io ascolto ‘sta roba e non so che dire. Cosa ne penso? Mi piace? Non mi piace? In fondo sono i quesiti a cui cerco di rispondere di fronte a un’opera d’arte. E non poterlo fare è frustrante.

C’è un sacco di arte che ti disarciona, costringendoti a non porti le consuete domande da fruizione e di per sé la cosa mi piace. Ma non bisogna fare di un sotto-genere un alibi che salva il culo ogni volta dalle critiche.

Di solito finisco per darmi la colpa, davanti a ‘sta roba, come se mi trovassi di fronte a una mostra di Schifano o una sinfonia di Ligeti. Si tratta del genere, mi dico, non ne so abbastanza per potermi esprimere. Ma allora che cosa scrivo? Che questa band è valida, così non rischio di sbagliare. Non posso ammettere che non sia alla mia portata. Non ho la sensibilità giusta per capire cosa stiano facendo?

La tentazione è di scrivere che siano tutte puttanate e ci andrò vicino dicendo che se un lavoro come A Chaos Of Flowers non mi convince non è tanto perché non sono fatto per la roba post-drone-sludge metal, ma per un concetto semplice a cui mi aggrappo e che ribadisco da un po’ di articoli a questa parte.

Un grande album va oltre il genere e la cultura specialistica che ne schiude gli eventuali meriti e significati. Non c’è bisogno di capire il genere per trovarsi sgomenti di fronte a un quadro come Guernica di Picasso. Non avete bisogno di amare l’AOR per comprendere la grandezza di Eclipse dei Journey o del thrash per rispettare cosa hanno fatto gli Slayer con Reign In Blood. Mi spiego?

E io cerco grandi album che mi conquistino, al di là del genere, delle settoriali divisioni che escludono un mondo intero dalle potenzialità comunicative ed emozionali di un lavoro artistico. L’arte dovrebbe parlare, non dico a tutti, questa è un’utopia, ma almeno a più persone possibili.

Cosa significa “più persone possibili?”. Vuol dire: un sacco di persone, non dieci cazzoni con il cervello in papparola e il sistema nervoso congelato.

A Chaos Of Flowers in alcuni momenti riesce a dirmi qualcosa. I Felt A Funeral è una nenia folk su un tappeto di totale disperazione elettrica e la cosa mi piace. Non c’è la rabbiosità monolotica dello sludge, non c’è la foglia di fico del caos tecnodronico e non c’è nemmeno la contettosità superba di certe band post-metal, è solo una gran canzone che vi si infila sotto le unghie e vi mette una gran smania di scavare una via di fuga dal muro di terra sotto cui improvvisamente vi trovate.

Not Speaking Of The Waves è la cosa più pesante dell’album e segue subito dopo. L’album in sé non è sludge né metal, sia chiaro. Ma in questo caso è il momento del gran casino, con un riff sporchissimo fregato ai Black Sabbath e mandato in loop sotto una valanga di echo ed effetti vari. La voce di Robin Wattie, che è un mix tra le moderne sacerdotesse occult rock inglesi e una imitatrice abbastanza ispirata di Beth Gibbons dei Portishead, svetta con autorevolezza sopra questo magma di suoni atmosferici. Lei conduce la navigazione al di là della selvaggia corrente che tira via e inghiotte le nostre povere anime fuscellose. Robin è la garanzia che stiate davvero ascoltando delle canzoni che vanno da qualche parte.

Fin qui niente male e tutto sommato A Chaos Of Flowers se la cava, ma a poco a poco si fararefatto, sfuggente e iniziano i problemi per me. I Big/Brave sembra si nascondano, si neghino. Io sono qui che aspetto di capire cosa abbiano ancora da darmi ma mi ritrovo nenie francesi su un roveto di sitar e chitarre (Chanson pour mon ombre), meditazioni con chitarra elettrica in stile Ry Cooder che fa colonne sonore per i thriller di Netflix (A Song For Marie Part III), un temporale di synth anni 80 presi da Terminator con su una rievocazione al contrario di un brano dei Led Zeppelin, rallentato a 20 giri (Quotidian: Solemnity) e qui e là altri momenti interessanti, certo, ma che non riportano il livello all’altezza dell’incipit I Felt A Funeral.

L’album si chiude su una nenia trenodica (o trenodiaca, boh) Moonset. Mi fa immaginare un locale da qualche parte nel freddo inverno del Canada. Ci sono tavoli tondi e coppie silenziose che guardano il vuoto, giocando con le dita sulle superfici brinose dei loro cocktail. Intanto i Big/Brave dal palco mettono in scena questa brumosa magia di chitarre, gonorree indio-elettriche, gravugli di batteria durante il sound-check, qualche fill che cita The End dei Doors e un po’ di roba stile jesssss-lounge bar.

Le coppie hanno gli occhi chiusi e cullano leggermente il capo alle onde sonore del concerto. La perfomer al centro, Robn Wattie, rievoca i fantasmi di Woodstock e quelli di Non è la rai in un rallenty degno dei film di Panos Cosmatos. E io esco nell’inverno canadese e mi affido alla clemenza della notte, come Jack Nicholson nel finale di Shining. Anche se lui era in Colorado.