Storm Corrosion – La sublimazione assoluta delle non convenzioni

Facendo un giochino stupido, magari dopo essersi scolati sei birre medie, qualcuno si butta e dice: “SE AVESSI POTUTO INCIDERE TU UN DISCO, QUALI AVRESTI SCELTO?”. Chiedetevelo anche voi. Purtroppo le risposte in molti casi saranno più che banali (almeno per me) e preferisco non saperlo, per non deprimermi. Se me lo chiedessero, avrei vari titoli, tra cui in assoluto spiccherebbero Opera 4 di Paul Chain e Wildhoney dei Tiamat, ai quali aggiungo senza esitazione Storm Corrosion del progetto omonimo.

Ma chi cazzo sono sti tizi, potrebbero chiedersi in molti? Una folk band moldava? Techno thrash dallo Zimbawe? No, molto più semplicemente un duo mistico e sublime formato da Mikael Åkerfeldt degli Opeth e Steven Wilson dei Porcupine Tree. Nel 2012 le loro menti geniali decisero di fondersi in un’entità subliminale dai contorni molto poco definiti e dare vita a questo progetto, fautore di un unico disco, almeno per ora e, aggiungo io, purtroppo mai bissato.

A coadiuvarli Gavin Harrison alle rade percussioni e batterie, il jazzista Ben Castle al woodwind (che cosa sia ve lo lascio scoprire direttamente a voi) e la London Session Orchestra (anche qui, andate voi a cercarvi i riferimenti, io vi dico solo: la soundtrack del film V per Vendetta). Premesse per qualcosa di inusuale, visionario, profondo e difficilmente inquadrabile, raffinato e a tratti incomprensibile. Voilà, chiesto e servito!

Spoiler alert: se il massimo della sperimentazione e dell’apertura mentale per voi tollerabile sono gli arpeggi di acustica su un brano dei Metallica o un layer sovrapposto di chitarra sulla quinta, fermatevi qui a leggere, non è roba per voi.

Davvero.

Diversamente, proseguiamo. Storm Corrosion è un lavoro molto complicato, ibrido, che sfugge a una catalogazione univoca. Intanto perché a crearlo sono due personaggi molto “difficili”, divisivi, specie Åkerfeldt, non graditi o simpatici a tutti i metalloni. E proprio ai metalloni puri questo disco NON è destinato.

Quando uscì la stampa, la critica e il pubblico si divise aspramente, con alcune sporadiche entusiastiche recensioni e un più vasto disappunto, con sbeffeggiamenti e con la stroncatura. Demenziale, a mio avviso. Raccontare questo Storm Corrosion è difficile, ma ci proviamo. Intanto il substrato in cui si muove è vasto: lo sperimentalismo progressive degli anni ‘70, quello più ostico e cervellotico, incontra la dark wave, il kraut rock di Popol Vuh, Tangerine Dream e Can e certo folk psichedelico affine alla Scuola di Canterbury, ma non solo. In più c’è una ricerca sonora che incorpora la musica ambient e l’uso di droni e bordoni, con la dilatazione spazio temporale delle strutture, talvolta circolari.

L’atmosfera generale è quella che banalmente si definisce “esoterica”, ma lo è per davvero. Inquietante, straniante, scarna e desolante, l’assenza ritmica convenzionale e le lunghe attese per un evoluzione armonica dei pezzi è sfiancante, snervante, ma è proprio quello che la rende meravigliosa.

C’è una sorta di orrore bucolico, un cadavere di bambino sepolto sotto a una quercia, un passaggio segreto nella cantina del cottage che porta a una cappella sconsacrata, un tramonto rosso sangue tra fronde scosse dal vento, dove strane ombre giocano a nascondersi con la Morte. Vedrei molto bene questi lunghi brani in un film di Dario Argento, i primi, o nella saga di Damien e in qualche horror psicologico fatto di possessione sognante e anime tormentate e tormentanti in un orfanotrofio abbandonato.

Vorrei averlo inciso io, certo, perché invidio, in senso buono, l’immenso talento del dinamico duo sopra citato e quando il popolino bue del metallo li critica, mi chiedo: potrebbero anche solo concepire quattro battute di quel disco? No.

Concludo con due note a margine: guardatevi i video con i burattini mentre ascoltate al buio i pezzi, è un’esperienza magnifica e terrifica. Poi, se lo averte perso e volete comprarvelo, a settembre la Kscope lo ristampa nei soliti millemila formati. Altro non c’è da dire, perché davvero descrivere un mondo interiore, quello che creano, vasto, complesso e sfaccettato è difficile e riduttivo.

Marco Grosso