Symphony Masses: Ho Drakon Ho Megas, di per sé non è un granché, dai. Si tratta di un momento di svolta per la band e sicuramente, per chi ama i Therion successivi, sarà un anello fondamentale della loro spina evolutiva, ma preso da solo non lascia chissà quale sconquasso di tregenda nell’anima. Non è e non sarà mai un classico, anche se ne vanta il peso perché con esso da una parte il gruppo si affrancò una volta per tutte dall’incipit death metal, di cui non sono mai stati punti di riferimento per nessuno; dall’altra, dopo aver pubblicato l’album per la svedese Megarock Records, lo videro passare di mano alla Nuclear Blast, etichetta che se li prese senza spendere un soldo e che li nutrì e protesse fino a quando sono stati in grado di spiccare il volo e riportare al nido un sacco di soldi.
La cosa curiosa è che i Therion di quei primi anni non vendevano granché. I numeri crescevano di album in album, ma le cifre erano ridicole per la media di allora. Nel mentre, come racconta lo stesso Christofer Johnsson, il loro seguito si sbriciolava e riformava a ogni uscita. Quando vennero fuori con un disco come Symphony Masses, persero i fissati col death metal, ma li rimpiazzarono con nuovi sostenitori dalle vedute un po’ più larghe. La Nuclear Blast, che poi li avrebbe aiutati a crescere e diventare la più importante symphonic metal band in assoluto, puntò su di loro in un momento piuttosto difficile per essere ottimisti.
L’album, riascoltato a distanza di molti anni, presenta momenti intriganti (Dawn Of Perishness) e altri più caotici, ma il bello è proprio questa voglia di cercare e cercare, seguendo uno spunto, tradendolo e poi, a volte tentando di riacciuffare il bandolo senza ansia di far quadrare la canzone. Per esempio nella suggestiva The Ritualdance of the Yezidis, il brano comincia come una spirale minacciosa, poi passa per sembrare uno scopiazzamento di Souls Of Black dei Testament e infine si sbriciola in una serie di birignao di tastiere esotiche e un po’ incasinate, fino a una chiusa di doppia cassa su una buffa melodia arabeggiante.
Non sono grandi canzoni. Dubito che nel corso degli anni, in una scaletta dal vivo, Johnsson peschi ancora da questo lavoro. Sembra un frammento congelato nella memoria, di un essere gigantesco in perenne mutazione, catturato da un fotografo mentre avanza sbavando e scalciando verso la perigliosa ed estenuante scoperta di se stesso. Se i Therion fossero finiti qui, oggi difficilmente qualcuno se li ricorderebbe. Che ne dite?