DOOMSDAY! #3 (RUBRICA SUL DOOM SECONDO RUGGIERO MUSCIAGNA) – IN QUESTO NUMERO: Katatonia; My Dying Bride; Eye Of Solitude

http://www.metal-archives.com/images/3/7/9/7/379717.jpg?5031Mio zio non mangia più pollo da anni. Andò a trovare dei familiari non ricordo dove e glielo offrirono. A fine cena dopo che si leccò pure i baffi gli dissero che in realtà era piccione. Da quel giorno non mangiò più pollo. L’ultimo dei KatatoniaDethroned & Uncrowned– l’ho gustato come quel così detto pollo. Non ho seguito più il gruppo da Last Fair Deal Gone Down. Mi piacque e non poco, fino ad annoverarlo nella mia top dieci personale dell’epoca, peccato che il seguito non fu eccelso e mi trovai contro le scelte stilistiche del gruppo. Quando ascolti Night Is the New Day e noti riff che fanno scapocchiare quel tuo amico che ascolta solo i Meshuggah capisci che hai sbagliato tutto nella vita. Ci ho creduto quest’anno e mi sono lasciato convincere dal nuovo titolo. La voce di Jonas Renkse mi attrae fin dai tempi di Brave Murder Day. Chi se ne frega che è passato dal growl funereo al soave angelico. Album in acustico? Gli Alcest della Svezia in barba ai francesi. Mi è piaciuto e non poco. M’informo prima di proferire parola. Scoperto che è la versione acustica di Dead End Kings l’ho cestinato all’istante. Come mio zio con il pollo, io non ascolto più i Katatonia.

(S.V.)

http://www.metal-archives.com/images/3/7/1/8/371813.jpg?4514L’arte è spettacolo e la vita ne è il teatro. Quando sali sul palco interpreti solo un personaggio. Quando imbracci il tuo strumento interpreti solo un personaggio. Lo sanno bene i My Dying Bride, capaci di saper mascherare le loro reali intenzioni dietro il volto funereo e l’atteggiamento noir tipico dei loro testi. La prima volta che li ascoltai non ricordo il quando e il come, solo ebbi l’ardire di guardare il video di For You dall’album Like Gods of the Sun datato 1996. ‘Signore cosa ho fatto di male. Ti prego uccidimi. Mamma ti chiedo scusa’. Questi e altri furono i miei commenti durante i suoi quattro minuti di durata. Caduto a terra in stato fetale ne ero rimasto bruciato, come di ustioni d’un ferro ardente. Ero rimasto marchiato e il doom ormai era parte della mia essenza. Grandiosi fino a For Lies I Sire, che contiene uno dei loro migliori pezzi in assoluto: My Body, a Funeral. I lavori a seguire sono Evinta, una compilation per festeggiare i loro vent’anni di carriera e l’indimenticabile The Barghest O’ Whitby. Un ritorno al death/doom degli esordi con Aaron Stainthorpe e il suo inconfondibile growl. Signori il growl di Aaron ancora oggi è capace di trasformare una quieta giornata in una fuga al cimitero. Se The Barghest O’ Whitby anziché un EP di ventisette minuti fosse stato un album vero e proprio della durata, non esagerando, di appena quaranta minuti, avremmo avuto IL capolavoro in grado di segnare una volta per tutte la rinascita dei MDB. Invece in quanto EP, rimane solo l’ennesimo EP, interessante ma proprio per la sua tipologia di mini-disco non sarà mai annoverato come episodio irrinunciabile, trascendentale. Il successivo A Map of All Our Failures mi rimase sul gozzo durante il viaggio a Lucca e lo cestinai senza ripensamenti. Quest’anno esce The Manuscript, contenente quattro tracce registrate durante la produzione del succitato A Map of All Our Failure. Sarà che l’ho ascoltato meglio o forse dura meno, però ha saputo catturare la mia attenzione. Di più facile assimilazione rispetto al precedente lavoro. Stainthorpe centra di nuovo il segno sostituendo al canto vero e proprio una specie di cantato ‘nenioso’ che ci avvince narrando le sue trame plunbee, tra gli intrecci melodici di Craighan e Glencross

(Voto: 8)

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Quando Daniel Neagoe finisce di terrorizzarci col suo lamento gutturale che niente ha da invidiare ai colleghi del death metal più marcio, si lascia andare nel primo canto dell’inferno di Dante. Gli
Eyes Of Solitude sono un gruppo londinese attivo da solo tre anni e già arrivati alla loro terza fatica chiamata niente poco di meno che Canto: III. Le citazioni dantesche si limitano a quell’intro parlata in un italiano dall’accento non perfetto, ma degno comunque di rispetto. Death/doom dalla forte componente funeral. Quando rallentano il ritmo, il sangue si gela nelle vene, il cuore rallenta il suo battito a tempo con la batteria e costringe a scendere in uno stato catatonico. Quando Headbang Or GTFO urlò che questo era l’album funeral doom dell’anno dopo aver ascoltato solo Act II: Where the Descent Began, ho sentito un richiamo irresistibile. Concluso il mio streaming ho atteso l’album completo e ogni mio desiderio è stato soddisfatto neanche avessi avuto la lampada di Aladino tra le mani. Miglior album funeral doom dell’anno? Non mi lascio andare in un parere così affrettato perché l’anno deve ancora concludersi, eppure in questo mese non trovo altro per fare un paragone. Se siete nel dubbio Terrorizer ci offre lo streaming completo. Sfido chiunque ad ascoltare la terza traccia, Act III: He Who Willingly Suffers e non correre su Amazon a ordinarsi una copia.

(Voto: 8.5)