Allora, parliamo un attimo del nuovo album dei My Dying Bride. Sapevate che era uscito, vero? Da qualche tempo ma io l’ho sentito solo adesso. Si intitola The Mortal Binding e già dal titolo potete immaginarlo frutto della stessa coerenza “allegrona” che caratterizza la band da molti anni. L’ho ascoltato (riascoltato e riascoltato…) senza aspettarmi nulla, con profondo rispetto per ciò che il gruppo ha fatto e rappresenta per la MIA storia del metal. E no, non mi ha deluso. Non mi ha sorpreso.
Forse un po’ il primo brano, che si intitola Her Dominion (Her Throat Labours at the Work of Felate), forse per quegli stacchi in cui la voce da sola latra e lacera di cose alla Autopsy, ma con un evidente sottotesto metaforico sicuramente più aulico.
Va beh. Finita lì. Il resto dell’album mi ha fatto pensare a diverse cose che ora vorrei condividere qui, ma non vi parlerò delle singole canzoni Su quelle non ho niente da dire. Parlo del disco nel suo insieme perché lo percepisco inscindibile e perfettamente naturale, come un uovo sodo di una Pasqua di molti anni fa, in una vecchia casa dove sono tutti morti la sera prima di quella Pasqua, ma erano talmente stronzi, che nessuno li è andati a reclamare per un sacco di tempo. E ora, dopo molti anni, quell’uovo gira tra le dita di un ispettore con lo sguardo arrossato e la gola ustionata dall’ennesimo antiemetico, mentre le mosche ronzano inconstrastate sulla carneficina senza spiegazioni. Scusate la digressione figurata in stile true crime ma sto ascoltando Demoni urbani in questo periodo, ed evidentemente la cosa mi influenza.
Torniamo all’uovo andato a male, calcificato in un perfetto verde alieno. Neanche puzza di materia fecale satanica. Ecco, diciamo che il disco è un po’ così. Marcio ma non puzza. Il cadavere della sposa è decisamente morto da un pezzo, tanto che neanche emana più i penetranti odori della putrefazione.
Lo stile c’è sempre sia chiaro. Qualsiasi cosa facciano i My Dying Bride, riescono a dire IO. Quel sound così tragico, vulnerabile e indistruttibile, come il cuore di un’amante abbandonata. Deve essere pesante trascinare se stessi per così tanti anni. Gli accordi, i riff, le melodie sono gravate sia dalla consueta scarsa voglia di vivere e di esperire, che dalla testamentaria essenza di un retaggio artistico raggiunto con merito, ma che affossa la band quando tenta di interrogare la vecchia prefica ispirazione.
C’è tanta maniera, c’è stanchezza ma nascosta dentro un bel muro di nostalgiche ossa e di muschiose pietre.
La cosa furba, non so quanto ragionata ma furba, dei My Dying Bride da giovani, così come i Paradise Lost, i Moonspell e tante altre band anni 90, è che fin dalla giovinezza non hanno puntato sulla forza, sulla velocità. Gli ormoni erano la base della loro evoluzione ma si sublimavano in una ricerca poetica spinta avanti adagio, con un passo quasi senile. I riff suonati in modo molto lento, le accordature così basse da strascicare in terra e un senso di sconfitta, di inutilità e di anelito per una morte liberatrice, erotica, così attraente non è difficile da reinterpretare oggi.
Dopo tre decadi di dischi e di tour, superati gli anta, i My Dying Bride non devono arrendersi al tempo e ammettere di non saper più raggiungere certe note o determinati picchi metronimici. Loro hanno sempre avuto il passo anziano e ora che anziani iniziano a esserlo, sembrano ancora più credibili, no? Peccato che non vadano più in nessun luogo. Non c’è una direzione. Non si alleggeriscono, non si riappesantiscono. Non aggiungono strumenti imprevisti e non rinunciano a qualche strumento previsto, vedi il solito violino.
Il loro nuovo album non è nuovo e non è niente, a parte l’ennesimo My Dying Bride. Poteva non esistere e nulla della concezione, la considerazione, la fama che il mondo nutre per il gruppo no avrebbe subito una sola variazioncina.
Si tratta di un’altra corsetta nei meandri della creatività, senza prendere vie inaspettate, senza strafare. Il gruppo saluta i propri fans e dona loro un riassunto delle solite cose che già conoscono bene. Sono passati quattro anni, era ora di rifarci vivi. Tutto qui.
Insomma, The Mortal Binding è come una lettera di qualcuno che abbiamo amato. Non lo sentivamo da qualche anno. Ci scrive le solite cose. La sua vita procede come una volta: ancora gli stessi passi falsi, i medesimi errori, le irresistibili uscite ironiche. Si richiude la lettera con un senso di piacere e un po’ di perplessità. Sono gli altri a non cambiare più o è la nostra concezione di loro a farceli sentire sempre gli stessi?