the dead light

Fen – A parte questo, validi, validissimi compositori!

Ah, il black metal atmosferico. Non esiste nulla di più difficile da inquadrare, per me. Se da un lato si tratta di un sottogenere ormai codificato nella somma di black metal più post rock/shoegaze, dall’altro è diventato sempre più complicato fare convivere nello stesso calderone band che spingono l’acceleratore su una componente stilistica anziché un’altra. Questo ha portato a polarizzare a dismisura il mio gusto in merito, cosicché a fronte di band e lavori che mi piacciono parecchio (a proposito: recuperatevi il catalogo dell’etichetta Nordvis), ci sono cose che mi sono indigeste come poche, tipo i Defheaven o gli Alcest.

Gli inglesi Fen hanno radici indubbiamente in quel genere, ma pare che negli anni abbiano stravolto la loro componente più metal, pur mantenendo salda l’intenzione paesaggistica delle parti più rarefatte. Infatti mentre i cromosomi dei primi due dischi erano il black metal e il post rock, mi sembra che la band abbia scritto questo The Dead Light con gli Enslaved e gli Agalloch come punti di riferimento, più che voler fare i Darkthrone che scimiottano i Godspeed You Black Emperor.

Le sfuriate di black melodico ci sono ancora, basti pensare a Breath Of The Void, Rendered In Onyx o Monochromatic Ossuary – a mani basse, il pezzo migliore qui dentro –, ma ormai sono solo una delle molteplici facce dello spettro compositivo dei Fen, che preferiscono alternare le consuete arie fragili e spaziose a complesse strutture metalliche dai tempi sincopati, con un una costruzione progressive sempre in evidenza.

Nebula o la title track, in questo senso, sono decisamente interessanti: riff spezzati alla Enslaved degli ultimi lavori, aperture di chitarra cariche di pathos in puro stile cascatella, sezioni in mid-tempo, accelerazioni improvvise, seguite da un interludio essenziale e minimal ma che è solo apripista ad un’ulteriore idea, un altro scenario da esplorare, e tutto nello spazio di una canzone.

Forse si poteva ragionare diversamente nei suoni, visto che la produzione di ghiaccio rende tutto un po’ troppo definito e chirurgico (il che è strano, per una proposta dedita alla rappresentazione di immagini in musica), ma sicuramente ci puoi passare sopra, vista la difficoltà nel far convivere tutto l’esagerato spettro dinamico in cui si giostra la band. Quello che però non mi va proprio giù è che, nonostante un’indubbia capacità nello strutturare bei riff e belle melodie, la band si lasci spesso prendere la mano con inutili lungaggini. Brani come Witness o l’accoppiata Searching/Echoes Of The Crowpath, posta proprio sul finale di un disco già di per sé impegnativo, sono terribili, dei veri e propri concentrati di quello che non sopporto in una canzone, roba da sindrome da Pink Floyd dei poveri, musica che se la tira per un delay o un riverbero con il feedback più lungo degli altri.

Non c’è tragedia, non c’è tristezza, non c’è desolazione, ma solo una carezza sul pisello a opera di una mano maschile. Mi dicono che il disco precedente aveva più roba di questo tipo, il che rende The Dead Light una spanna sopra, sulla fiducia. Visto che i tempi del sound grezzo degli esordi sembra ormai irrecuperabile e visto che tutto sommato le inclinazioni prog nei Fen funzionano e anche bene, credo che asciugare ulteriormente le composizioni gioverebbe non poco al loro sound, più che altro perché magari, da qui a un anno, potrei avere ancora la voglia di rimettere su un loro disco senza dover skippare interludi e intro di cinque minuti. A parte questo, validi, validissimi compositori.