Black Metal – Una strada senza uscita

Si ringrazia per i contenuti e l’ispirazione Gabriele Lenzi, amico di una vita. Se tante volte ci ripensassi, ti aspettiamo su Sdangher.

Si può parlare di black metal senza essere un cultore seriale? Seguo con grande interesse lo spazio che Sdangher! dedica agli esponenti della scena black underground, in particolare di provenienza nostrana e capitolina. Per quanto dalle interviste emergano punti di vista senz’altro divisivi ma comunque interessanti, non nascondo che questo continuo gridare “al lupo al lupo”, dove il lupo di turno può essere la censura, la morale comune, la società multietnica, la cultura “woke” (ammesso che ne esista una definizione univoca e condivisa), mi fa un po’ sorridere, e non lo dico per supponenza.

Il black metal fin dai suoi inizi si è posizionato in maniera antagonista ai valori borghesi occidentali di quella stessa società che lo ha partorito. Non puntava ad essere accettato, né a trovare forme di compromesso con chi o cosa dettava le regole del patto sociale. Il black metal doveva shockare, mettere in discussione, far tremare di paura, almeno sulla carta. Per questo quando leggo certe lamentele su una presunta censura operata dalla cultura dominante mi viene da sorridere: il black metal sta dove deve stare, in una nicchia di cattiveria e negatività che ha come unico obbiettivo quello di perpetrarsi all’infinito in una spirale di odio e chiusura.

Il black metal è stato indiscutibilmente l’ultimo grande movimento stilistico partorito dalla grande famiglia dell’heavy metal. Ultimo non a caso, perché con quello il metal si è andato a ficcare in un vicolo cieco da cui non ha saputo più uscire.

Ci finii dentro alla maniera di molti, in quegli anni, un po’ per curiosità, dopotutto aveva un piede nel metal tradizionale e per questo poteva sembrare persino rassicurante, ma soprattutto perché ai miei occhi appariva come una forma di resistenza a tutte quelle novità del metal anni’ 90 più modaiole. Percepivo il black metal di allora come un qualcosa di magmatico e non del tutto chiaro, percezione magari condizionata dalla prospettiva di essere adolescente nato e cresciuto in provincia, in un luogo in cui tutte le cose ti arrivano un po’ a pezzi e bocconi, se non addirittura distorte.

Ho un ricordo nitido di quando acquistai il vinile di Transylvanian Hunger nel negozietto underground della mia città (perché ogni città aveva il suo negozietto alternativo), salvo poi rivenderlo con estremo disgusto a distanza di pochi mesi; oggi quel disco potrebbe valere parecchio, perché nel frattempo si è sviluppato un livello pazzesco di collezionismo su quella roba lì.

Questo è già un aspetto interessante per capire anche quanto di quel movimento è diventato mito e quanto a suo modo è diventato moda, o trend. C’è tuttavia un ulteriore aspetto, più personale. Il black è stato senz’altro il fattore scatenante della mia crisi col metal di quegli anni: ero a cavallo fra adolescenza e post-adolescenza, spinto dall’esigenza di allargare gli orizzonti e quindi anche di uscire anche da quell’attaccamento che avevo per l’universo del metal.

Un universo che è stato, a ripensarci bene, un po’ come un’ancora di salvezza, su cui investivo e ho investito grandi energie emotive, mentali ed economiche, magari per compensare alcune lacune, psicosociali, emotive, chi può dirlo. La mia crisi con il metal è venuta a coincidere con il momento della crescita, ed è stato bello riavvicinarsi anni dopo a questa musica senza quell’obbligo di coinvolgimento a trecentosessanta gradi tipico di certi ambienti che diventano col tempo autentiche calamite.

Tuttavia, anche a non voler considerare quella fase di crescita personale, il black metal ha comunque rappresentato un momento di rottura. Ai miei occhi, la via nichilista intrapresa dai capostipiti del genere tradiva in tutto e per tutto quello che era il vero spirito dell’heavy metal. Lo voglio proprio chiamare così, heavy metal, per usare un’etichetta il più possibile generica, ma che abbraccia tante cose degli anni ‘80 e primi ‘90.

Il “metal” è diventato oggidì fin troppo onnicomprensivo, un’etichetta molto più vuota di un tempo, in cui entra di tutto, dagli Skunk Anansie ai Rammstein, qualsiasi cosa oggi è metal. Ormai un gruppo che fa ambient è metal perché è trattato anche sulle webzine e le riviste metal, per esempio.

Vabbé, passiamo oltre.

ll black metal non si è limitato ad estremizzare alcuni concetti, ma ha finito addirittura per tradirne quelli fondanti, lasciando per strada alcuni aspetti fondamentali dell’estetica heavy metal.

Mi riferisco a certe metafore, o figure retoriche se preferite, che caratterizzavano quel mondo, la guerra, l’epica, l’anticonformismo, con il black metal questi aspetti sono stati trasfigurati nella vita reale ma in un’ottica negativa. Facciamo un esempio e prendiamo il grande Ronnie James Dio, un’icona degli anni ’80 e non solo che con i suoi testi, inclusi quelli del periodo Rainbow e Black Sabbath, non solo non negava, ma rendeva esplicita in tutto e per tutto la fascinazione del diabolico, del demoniaco, del negativo, dell’oscuro, non in quanto negatività in sé, bensì paurosi o spaventosi per la società normale, perbenista, eccetera.

Questi contenuti venivano poi ribaltati in una accezione positiva, che ti dava la carica e in cui ti potevi persino identificare. Individuare e riconoscere il male, il sinistro, l’oscuro, serviva a metterti in guardia e a reagire, a non lasciarti andare. Come poteva un ragazzo cresciuto con questa mistica, arrivare poi ad identificarsi in un Euronymous che mandava in giro dei ragazzetti a bruciare chiese, ad ammazzare la gente, a utilizzare e strumentalizzare degli slogan politici presi a caso da destra e da sinistra?

Queste cose non c’erano mai state nel metal, per lo meno non in forma di movimento o di scena musicale. Ammetto di aver vissuto questo passaggio un po’ come un tradimento di tutta la questione, così come lo è stato il rompere quell’equilibrio cui facevamo riferimento prima. Mi riferisco al metal buonista dei Rhapsody e di tutto il filone del power anni ‘90, cui fanno eccezione band come Gamma Ray, Blind Guardian, Running Wild, Rage che almeno inizialmente erano un po’ più imparentati con le cose vecchie e avevano le radici negli anni ‘80.

Negli anni ’90 c’è stata una sorta di sdoppiamento, l’heavy metal era diventato tutto nero da una parte e tutto sorridente dall’altra, si era perso quell’equilibrio un po’ magico e sicuramente anche delicato, che aveva fatto la fortuna del genere. Al di là della questione personale, ho trovato il black appunto una specie di tradimento dello spirito del metal anche da un punto di vista musicale. Come si poteva definire l’heavy metal se non una musica potente, energica, che ti dava la carica con un riff, con una certa ritmica o distorsione?

Col senno di poi, potremmo dire che quelle canzoni trasudavano contenuti di ciò che oggi definiremmo empowerment, come si dice in certi contesti da fighetti aziendalisti. Di energia, di potenza, di rivendicazione, non saprei quali altre definizioni usare. Ho sempre avuto la sensazione che i gruppi black cercassero di creare una ambientazione sonora, un tappeto, con il tremolo delle chitarre perpetuato all’infinito, con queste batterie talmente veloci da diventare un unico suono di sottofondo, con queste voci graffianti che non si riusciva più a decifrare. Fu uno shock, ben più del death metal che era arrivato appena pochi anni prima ma che era ancora pienamente nel solco dell’heavy metal, e mi riferisco sia quello americano che scandinavo.

Magari se quei ragazzetti norvegesi non si fossero ammazzati tra loro e non avessero fatto quello che hanno fatto, non avrebbero guadagnato tutta quella notorietà e il black sarebbe stato soltanto una parentesi di quegli anni. Magari alla lunga sarebbe emerso quello greco, che era dignitosissimo, con gruppi musicalmente più interessanti e vicini alle radici Eighties, (thrash, heavy metal, speed), penso ai Rotting Christ, i Varathron o i Septic Flesh, band dai contenuti simili a quelli dei norvegesi ma privi di riscontro nella vita reale. Talvolta mi chiedo cosa sarebbe successo se in quel giro dei norvegesi ci fosse stato un equilibrio più simile a quello che c’era in tanti altre scene o sottogeneri in giro per il mondo.

Quel pezzo di terra fra Bergen e Oslo in quegli anni ha avuto una concentrazione un po’ eccessiva di gente fuori di testa e con disturbi antisociali, e non è un caso che in mezzo a tutta quella baraonda, i più normali tipo gli Enslaved, se la siano svignata a stretto giro, una volta capita l’antifona a dispetto della giovane età.

Gli altri invece no, erano dei fuori di melone e hanno fatto quello che hanno fatto. Se tutto questo non fosse successo forse la storia del metal sarebbe andata diversamente, anche perché secondo me non ci sono neanche chissà quali momenti musicali degni di nota in quell’ambiente. Certo, non mancano i momenti di genio, il riff di Freezing Moon, alcune soluzioni di Burzum o di Fenriz, ma si tratta di guizzi più che di dischi interi.

Al di là di quello non trovo un valore musicale tale da giustificare il culto che ne è seguito, che dura ancora oggi e che ha cambiato il metal al punto che oggi lo stereotipo del metallaro non risponde più al classico canone chiodo e stivali, ma è ormai uno con la faccia dipinta, basta scorrere i social e i vari meme che lo popolano.

Curioso invece come il black metal si sia sposato praticamente fin da subito con l’ambiente dark, che era stato totalmente disinteressato al metal fino a quel momento; qualcuno a tal proposito mi cita la fanzine “Ver Sacrum”, ancora in attività sul web, attiva nell’area di Pisa e della Toscana già dai primi anni ’90, che aveva tutta una parte di contenuti non musicali fra cui cinema horror, letteratura gotica, insomma, tutto quello che i metallari condividono col mondo del dark. All’epoca le uscite black venivano accolte, recensite e riscuotevano grande interesse.

L’atteggiamento di tanti blackster che si lamentano della censura o dei valori dominanti, che poi alla fine sono sempre quelli in qualche modo, è un fenomeno che non posso non ricondurre a una dinamica anche generazionale, l’impressione è che siano ancora quelli dell’inizio che si incattiviscono con la censura, con questo o con quello… se penso a gente come Dimmu Borgir e Behemoth, mi sembrano quelli con l’aria di di chi dice “ragazzi, con questa roba si possono anche fare dei soldi, ripuliamo la proposta di tutto lo schifo che c’è stato e diamolo in pasto alle masse (di metallari)”.

E in qualche modo ha funzionato. Mi viene tuttavia da fare un’altra considerazione: se guardiamo ai precursori della scena, a quei norvegesi che hanno dato inizio a tutto, non c’è più chi li guidava e quindi non ha più senso parlarne in quel contesto.

Burzum ha preso un suo percorso, è uno un po’ fuori di testa e anche con le sue idee politiche strampalate a voler essere buoni, ma Immortal e Darkthrone non mi sembra che abbiano sviluppato le idee della prima ora; rimangono fondamentalmente dei gran cazzari (in senso amichevole) e probabilmente lo sono sempre stati. E se quelli della vecchia guardia, gli inventori del movimento, fossero stati in realtà dei troll dal minuto zero?

Quelli che invece li seguivano a ruota, la seconda generazione di band come Emperor, Satyricon, Gorgoroth e Watain, ha finito per essere più realista del re, replicando le gesta e l’estetica dei loro amici più grandi, i quali erano probabilmente più dei metallari vecchia scuola che altro.

Se proviamo a unire i puntini tra il Fenriz degli ultimi anni, che mette sul tavolo le influenze metalpunk, e il Fenriz del primo disco col cappello da cowboy che si faceva chiamare Hank Amarillo, con questo nome da personaggio dei libri di Cormac McCarthy, tutto sembrerebbe coerente, anche se in mezzo ci sono almeno tre capolavori di oscurità e cattiveria.

Mi sembra un po’ strano che tutto d’un tratto il nostro amico fosse diventato all’improvviso Schopenhauer, tenderei piuttosto a credere che trollava pure lui, magari in maniera un po’ così, tra il serio e il faceto, era un troll anche nei tre dischi culto del black metal, però ci sono cascati tutti e il risultato è che quei dischi oggi valgono due-tre due-tremila euro su Discogs. E il mito non accenna a svanire.