“Il più grande passo falso dei Megadeth”, un totale insuccesso commerciale (le vendite più basse dai tempi di Peace Sells), malcontento dei fan, critiche impietose della stampa specializzata, la conseguente perdita del contratto con Capitol (in piedi dal 1986) e il licenziamento di Marty Friedman, ovviamente additato come uno dei principali colpevoli. Questo il biglietto da visita di Risk (1999), ottavo e famigerato album dei Megadeth di MegaDave MegaMustaine, al quale non si può non attribuire un certo senso dell’umorismo e una qualche consapevolezza di ciò in cui si stava imbarcando, visto che l’album uscì ad esempio anche in formato doppio CD, ovvero con un primo dischetto (Risk Disk) ed un secondo (No Risk Disk) contenente una traccia da ognuno dei sette lavori precedenti, personalmente scelta da Mustaine, quasi a rassicurare gli acquirenti sul solido passato dei Megadeth (“siamo pur sempre quelli di prima”).
Siamo sempre sull’onda lunga del Black Album, il decennio sta per finire ma ancora quei vapori mefitici non accennano a diradarsi. I Megadeth il loro percorso di alleggerimento lo avevano cominciato a partire dal 1992. Da Rust In Peace a Countdown to Extinction c’è un bel salto in termini di ritmiche e aggressività, e lo stesso accade tra questo e Youthanasia; e tra Youthanasia e Cryptic Writings.
La progressione è ininterrotta e a suo modo coerente. Subentra sempre più melodia a fronte di una sottrazione continua di metal, due polarità all’apparenza inversamente proporzionali. “Countdown” è accolto molto bene in verità, mentre con “Youthanasia” e soprattutto “Cryptic Writings” cominciano ad arrivare diversi detrattori. All’altezza del 1997 siamo al punto di non ritorno, l’orizzonte degli eventi per Mustaine, anche solo mezzo passo in avanti e sarà rivolta. Come invitare il roscio a nozze… non ne fa uno di passi avanti ma dieci.
Fondamentalmente il problema di “Risk” a mio avvisto è l’associazione tra monicker e musica, intollerabile per un die-hard fan dei Megadeth ma più in generale per la forma mentis cosiddetta “metallara”. Intanto vige quel noto dogma borchiato per il quale è tutto ok se indurisci, ma suona l’allarme se invece ammorbidisci.
C’era poi una certa ipersensibilità sull’argomento data da quanto avevano combinato i Metallica lungo tutta la decade. Mustaine doveva e poteva rimanere una roccia alla quale ancorarsi e invece pure lui subisce l’ipnosi delle sirene del mainstream, del pop e dei dollari tonanti. Non mi è chiaro come Mustaine avrebbe potuto pensare che trasformare i Megadeth in icone pop sarebbe risultata un’operazione vincente.
Quale consumatore di pop si sarebbe fidato di una band che per 15 anni aveva suonato thrash metal? E quale metallaro avrebbe gradito una contaminazione così vistosa e ingombrante? Dunque a quale pubblico si stava rivolgendo esattamente Mustaine? Infatti non credo abbia mai realmente optato per una scombinata scommessa simile: ovvero acquistare Lamborghini e Jacuzzi grazie alle vendite di “Risk”.
Credo invece che Mustaine abbia sempre avuto uno spiccato senso melodico, strozzato e frustrato perché poco proponibile nei primi anni della band. Quando con “Countdown To Extinction” lo ha liberato, allentando le redini, si è accorto che si poteva effettivamente fare e che ne poteva uscire persino qualcosa di buono.
Certo, si è anche fatto prendere la mano, non tutto nella produzione dal 1992 al 2001 è perfetto; per dirne una, a me la tanto celebrata “A Tout Le Monde” sembra una delle canzoni più brutte del repertorio Megadeth. Tuttavia, di contro, non penso affatto che “Risk” sia un fallimento, né tanto meno un album mediocre.
Molto più pragmaticamente credo invece che non sia un disco dei Megadeth, il che però non lo rende scarso, sono due cose differenti. Se “Risk” fosse uscito con un altro monicker e/o per un’altra band, in molti avrebbero alzato meno muri e pregiudizi, riuscendo a coglierne la finezza del songwriting, l’eleganza e l’ariosità delle composizioni, la squisitezza melodica, la produzione impeccabile.
Non è vero che “Risk” sia un album totalmente anti metal; siamo al cospetto di un rock a tratti hardizzato e con una certa tensione soggiacente che qua e là si affaccia e si fa sentire, a suo modo ha momenti di evidente nervosismo e irrequietezza (Insomnia, Crush’em, Wanderlust, The Doctor Is Calling), stemperati al contempo da aperture solari e luminose (I’ll Be There, Ecstasy), o persino da composizioni nelle quali i due aspetti convivono tra strofa e ritornello (Breadline).
Il riff con cui si apre la seconda metà di Time (pezzo diviso in due parti: The Beginning e The End) vale da solo il prezzo del biglietto, disarmante nella sua semplicità ma impossibile da scrostare dal cervello dopo il primo ascolto.
Ecco, “Risk” è apparentemente un album molto semplice, troppo semplice anche per chi aveva tollerato le produzioni precedenti nonché sideralmente distante dagli arzigogoli di “Rust In Peace” ma, a ben guardare, è una linearità artificiosa, simulata, sapientemente ottenuta da una produzione sublime (il tanto vituperato Danny Huff), nonché ovviamente dalle intuizioni in fase di songwriting della band, in primis da Mustaine e Friedman. L’anima di “Risk” rimane quella di una band metal che dà polpa e sostanza a una scaletta che invece lavora per andare nella direzione opposta, come gas che cerca di disperdersi verso l’alto, lottando visceralmente contro la forza di gravità.
Mustaine aveva voglia di simili sonorità, il suo pubblico per niente e venne distrutto per aver osato. Danzare sull’orlo del precipizio di una disfatta economica non piacque per niente a MegaDave, la perdita del contratto con Capitol bruciò moltissimo. Ed ecco lo scaricabarile: la colpa era di Friedman che chissà cosa si era messo in testa (deja-vu di quanto fatto dai Testament con Skolnick all’indomani di The Ritual); anzi no, la colpa era del produttore Dann Huff che voleva trasformare i Megadeth nella sua ex band, i Giant.
Beh, ma Mustaine dov’era quando ciò stava accadendo?
Che i Megadeth non avessero le idee chiarissime lo si evince anche dalla pubblicazione dell’album immediatamente successivo, quel The World Needs A Hero salutato da Mustaine come un ritorno all’ovile che nei fatti non è, contando sull’appeal un po’ telefonato di Return To Hangar, che si aggrappa disperatamente a “Rust In Peace” ma sa solo di rimasticatura scialba.
Intendiamoci, per me l’album ha pezzi discreti come Disconnect, Moto Psycho o 1000 Time Goodbye, ma siamo sicuramente lontani anni luce da ciò che voleva (direi pretendeva) il pubblico. Bisogna aspettare il 2004 per avere un addolorato e penitente ritorno del figliol prodigo all’ovile con The System Has Failed, con tanto di recupero in formazione nientemeno che di Chris Poland.
Masse urlanti, folle in tripudio e pioggia di complimenti per i Megadeth finalmente “ritrovati”. A mio gusto paradossalmente è l’album meno interessante di tutta la discografia del gruppo. Un mesto e ruffiano tentativo di riacciuffare simpatie e benevolenza del pubblico, un vestitino perfettamente thrash calato però su un album noioso, con poche idee e soprattutto nessuna sincerità se non l’ansia ferocissima di farsi ribattezzare a tutti gli effetti come bravi ragazzi appartenenti al thrash metal.
Gli ultimi 20 anni sono stati caratterizzati da lavori rigorosamente ortodossi (verrebbe da aggiungere anche “in fotocopia”) con la sola eccezione di Super Collider, che infatti è sostanzialmente l’unico a essere stato mal digerito.
Anche qui, “Super Colllider” – la canzone intendo – ha una melodia sopraffina, che personalmente trovo irresistibile, ma evidentemente non paga, perlomeno non quanto l’eterna quanto rassicurante ripetizione di un canone che non destabilizza il popolo dei Megadeth, sempre più incentrati sui vezzi, sui vizi e sui capricci del leader indiscusso ed indiscutibile, Dave Mustaine.
(Marco Tripodi)