Manowar – Triumph Of Steel tra corpo e mente

Triumph Of Steel per me è l’ultimo grande album dei Manowar. So che questi discorsi variano in base all’età. Sicuramente Marco Grosso, più grande di me di quasi dieci anni, dirà che dopo Sign O The Hammer non avessero più motivo di esistere e uno come Heintz “la vecchia guardia” Zaccagnini invece penserà che da Battle Hymns non ci fu più un domani. Io sono del 1978 e nel 1992, quello è stato il mio primo impatto con la band di DeMaio, quindi per la mia percezione, che credo quindi sia generazionale, il declino è partito da dopo.

Non sono un estimatore della suite Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts, per quanto Wikipedia assicuri che nella trattazione lirica del poema omerico, una professoressa universitaria italiana, dopo aver esaminato attentamente il lavoro della band, abbia finito per giudicarlo impeccabile sul piano filologico e contenutistico. Non dovreste sorprendervi di questo. Io non mi stupisco mica. In fondo i Manowar hanno sempre fatto questo gioco. Con le loro posture esasperate, lo sprezzo del ridicolo, hanno incoraggiato una fetta di pubblico a sminuirli e sottovalutarli; poi però sotto sotto il loro lavoro è sempre stato molto serio e duro. Certo, in quel brano gigantesco c’è più il peggio che il meglio del gruppo.

Ma in Achilles… gli otto segmenti non hanno una struttura coerente, sono come degli spezzoni messi uno in fila all’altro in modo abbastanza schizofrenico. Quando poi nel finale si passa ai monologhi dei singoli strumenti c’è da spararsi. Mi ha sempre ricordato il raffazzone assoluto di At War With Satan dei Venom.

In quel caso però c’era un intento quasi parodistico, da sbertuccio luciferino, una parodia consapevole delle lunghe composizioni del progressive anni 70. Una specie di messa al contrario delle liturgie del rock intelligente e colto, già realizzata del resto anni prima dai Jethro Tull con Thick As A Brick. E nel caso dei Tull era gente che sapeva suonare e scrivere grande musica a prendere in giro altra gente che sapeva suonare e scrivere grande musica.

Per i Venom invece fu solo una “lerciata interminabile” di un gruppo di incapaci e irriverenti figli di fogna che dagli inferi scorreggiavano l’Ave Maria di Schubert con un’orchestra di mille culi.

Con i Manowar di Achilles… è il supremo monumento compositivo a se stessi e lascia il tempo che trova. Sul piano creativo, la loro suite sta agli Yes come gli assoli di Richard Benson stanno a Steve Vai. E per me è il punto di non ritorno, l’ingresso di Buffalo Bill Cody dalla realtà difficile e perigliosa del vecchio west, al circo itinerante che ricostruiva le prodezze degli eroi della frontiera. Con i Manowar diciamo che il circo divenne il circo del circo.

Io ho rispetto dei dischi storici della band e fino a Kings Of Metal credo che i Manowar, pur ostentando una boria un po’ comica e surreale da sempre, abbiano mostrato fin da subito di avere un’idea specifica e audace, di saper scrivere grande musica e di suonarla in modo molto potente. In fondo anche gli Slipknot hanno offerto un’immagine eccessiva, prendendosi insulti e bocciature preventive dal pubblico, salvo poi essere sotterrato dai loro show.

Diciamo che dal 1992, con il crollo in classifica del metal, un’attitudine che per qualche tempo era stata accolta con entusiasmo dal mainstream, è tornata a risultare ridicola e fuori da ogni contesto. I Manowar in tutto questo si sono naturalmente crogiolati, portando il proprio discorso avanti, fino alle conseguenze più insopportabili (Lords Of Steel), senza mai guardarsi indietro, se non per auto-plagiarsi.

Nonostante le tremende considerazioni di Luca Signorelli sul Metal Hammer del 1992, divenute Storia culturale del metallaro italiano, Triumph Of Steel è ancora un lavoro che spacca in due il cranio a qualsiasi poser. Le canzoni sono ottime. Spirit Horse of the Cherokee e The Demon’s Whip su tutte le altre. E credo che il materiale di tutti questi brani “corti” avrebbe potuto, se inserito in modo sapiente nel canovaccio compresso di Achilles… permettere ai Manowar di realizzare un grande concept.

Non c’è quasi nulla di quei 28 minuti che mi rimanga in testa e lo ascolto e riascolto da diversi anni. La melodia di The Power of Thy Sword e Master Of The Wind mi accendono ogni volta che le ascolto e potevano rendere al meglio le gesta di Ettore e Achille, se invece di quello zapping epic-sketch DeMaio avesse provato a costruire un album completo sull’Iliade, guardando a The Wall e Operation Mindcrime. I Virgin Steele avrebbero fatto diversi dischi così già da tre anni dopo.

Quando ascolto i Manowar, e questo accade in quasi tutti i loro dischi, c’è una parte di me, quella razionale, che rifiuta certe posticcerie, i testi ripetitivi, la grandeur sovente assurda e poi c’è una parte di me, quella più fisica e vicino al cuore, che invece si ingozza di suggestione.

Sì, credo che il meglio dei Manowar sia quando queste due parti sono d’accordo. Davanti a un disco come Hail To England, se ammiri il metal con la mente e il corpo, non puoi che godere da cima a fondo. In Triumph e già in Fighting The World, la scissione per me già inizia, fino a tagliarmi in due tronconi con una grande ascia.

Per farvi capire, un brano come Metal Warriors, quando lo ascolto, io mi sento non solo io ma due fratelli siamesi, il primo vorrebbe trascinare il corpo di entrambi fuori dalla stanza, lontano dalla musica; l’altro si aggrappa a qualcosa, non vuole uscire e intanto urla il ritornello con tutto il fiato. Non so se mi capite.